L’ex premier si scopre “onesto” e il Pd è di nuovo costretto a inseguirlo sulla questione morale. Con il suo tira e molla vuole convincere i dem a convergere su un terzo candidato “pulito”
Il Pd rischia di rimanere spalle al muro. Giuseppe Conte ha logorato il Pd fino a finire per cuocerlo a puntino: dopo che martedì sera il suo candidato sindaco a Bari Michele Laforgia ha messo la propria candidatura a disposizione dei partiti che lo sostengono, l’ex premier è a un passo dal suo obiettivo, cioè costringere il Pd a convergere su un candidato “pulito” individuato con il contributo centrale del presidente del M5s.
È l’ultimo tassello di una strategia da cui Conte esce politicamente vincitore: in Basilicata è riuscito a spedire Carlo Calenda tra le braccia di Forza Italia pur di non accettare lui e i socialisti pittelliani in coalizione mentre con l’altra mano impallinava Angelo Chiorazzo, il candidato lanciato dal suo amico personale Roberto Speranza. In Piemonte il Pd con la candidatura di Gianna Pentenero gli ha offerto l’alibi per tenere il punto e regalare ai grillini sul territorio la soddisfazione di non dover fare cosa comune con i detestatissimi dem, con cui c’è un conto aperto dai tempi della sindacatura di Chiara Appendino.
La mossa più furba è arrivata però in Puglia, dove la rottura sulle primarie di Bari ha stupito tutti, considerato anche il clima accogliente all’alleanza giallorossa che ha sempre permeato i lavori dei dem in regione, a tutti i livelli. In realtà, il particolare favore di cui Conte ha sempre goduto tra i dirigenti pugliesi, dal presidente della regione in giù, ora può agevolarlo nel recupero dei rapporti e nella convergenza su un candidato comune: nessuno ha interesse a perdere Bari, meno che mai i dem che vi governano in maniera ininterrotta dal 2004. Peraltro il candidato del centrodestra, che la Lega ancora reclama per sé, non è ancora stato ufficializzato (dovrebbe essere Fabio Romito). La discussione tra gli alleati non accenna a concludersi, lasciando paradossalmente buone possibilità al Pd di spuntarla, nonostante tutto.
E allora nessuno si sente di escludere che in queste ore la trattativa presa in mano dagli esponenti dem pugliesi potrebbe portare a un certo punto anche Vito Leccese – il candidato a cui Elly Schlein ha confermato la fiducia dal palco di Bari la settimana scorsa – a fare un passo indietro. Dal punto di vista del Movimento 5 stelle, la vicenda giudiziaria che ha investito una parte della giunta regionale di Emiliano – giunta di cui a oggi continuano a far parte anche i Cinque stelle – è stato, con un po’ di cinismo, quasi una fortuna.
La rottura di Conte mentre i gazebo in cui si sarebbero dovuti sfidare Leccese e Laforgia erano già quasi tutti montati, è arrivata come una manna dal cielo, visto che ha permesso ai grillini di evitare un voto che avrebbero potuto perdere. In questo modo Laforgia è rimasto in corsa, almeno fino a martedì scorso. Il suo nome sembra destinato comunque a uscire dalla contesa elettorale, considerato che per i dem quella strada sembra impraticabile e quel candidato continua a non convincere tutti i dirigenti decisivi. Resta però incertezza su chi possa essere il terzo nome di cui nei giorni scorsi non c’era traccia, almeno secondo Laforgia stesso.
L’arma segreta
Ma, soprattutto, la vicenda barese ha permesso a Conte di recuperare un’arma d’eccezione, la bandiera della legalità, a lungo riposta nel più lontano dei cassetti. Tornando a sventolarla e presentandosi come il più “onesto” dei partiti – non è un caso che anche le clip rilanciate sui social dai profili del leader vertano nelle ultime ore su questo tema – l’ex premier può interpretare un ruolo che ha sempre avvantaggiato i grillini. Fin dai tempi di quando a palazzo Chigi sedeva Matteo Renzi e l’ondata di populismo pentastellato aveva portato il Pd a rincorrere il Movimento su alcuni provvedimenti anti casta. Ma mentre Conte non può che uscirne da unico difensore della legalità in politica (così come la sua critica alla governance Rai è risultata credibile nonostante le trattative sempre aperte con i vertici di viale Mazzini e la sua presenza alla festa di compleanno dei 60 anni del direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci), Schlein «rischia di doverlo seguire per non apparire come una leader che rimane troppo legata alle proposte che le fanno i cacicchi di cui si voleva liberare» è il ragionamento.
E, nonostante la pronta reazione dei dem che vengono in qualche misura coinvolti nelle vicende giudiziarie che sembrano spuntare intorno al Pd – come quella dell’assessora Anita Maurodinoia in Puglia che si è dimessa nel giro di un’ora o quella di Raffaele Gallo, che da non indagato ha ritirato la propria candidatura dopo la pubblicazione di indagini che sfioravano il padre – Conte sulla questione morale rischia di avere sempre la meglio. Peraltro, nonostante casi rilevanti anche nelle file del proprio partito, non ultimo quello di Appendino, condannata in appello a diciotto mesi di carcere per la vicenda di piazza San Carlo risalente a quando era sindaca. Resta il fatto che Schlein non può mostrarsi attaccabile su questo punto. Piuttosto, «testardamente unitaria», cercherà ancora una volta il compromesso. Fosse anche con il rischio di esporsi all’accusa di essersi ridotta a inseguire Conte.
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