Per tutta la carriera Mario Draghi ha esercitato la leadership senza voler diventare il capo, un grande insegnamento gesuita. Nella liturgia pubblica officia il potere come sacrificio di sé, e ha orientato la politica lasciando che altri la guidassero. Ha salvato l’euro con una frase di cinque secoli fa. Il segreto è che, mentre ti fissa serio, sa che vincerà ridendo per primo
- Si è parlato di un “enigma Draghi”, ma l’enigma è la politica italiana intorno alla quale ronza da sempre ascoltando, consigliando e risolvendo. Senza mai mescolarsi con i politici o scontrarsi con loro, sempre orientandoli, sempre lasciando a loro la decisione.
- Dai gesuiti Draghi ha imparato a esercitare la leadership senza voler diventare il capo. Roland Barthes, che ha studiato la lingua degli Esercizi di sant’Ignazio, ci farebbe notare che «todo modo» in inglese si traduce «whatever it takes».
- Draghi ha aspettato che lo chiamassero non solo perché così gli hanno insegnato i gesuiti ma anche perché, contrariamente alla sua apparenza ingessata, candidarsi gli è vietato da un senso dell’umorismo inaccessibile alla media dei fondatori seriali di partiti.
«Mario Draghi è un enigma», ha scritto dieci anni fa il Financial Times. Marco Cecchini, esperto giornalista finanziario di pochi anni più giovane del nuovo presidente del Consiglio, gli ha dedicato pochi mesi fa una biografia intitolata L’enigma Draghi (Fazi). Silenzioso, riservato, impenetrabile. Misterioso, come piace ai complottisti alla perenne ricerca di mandanti perché non capiscono che a questo punto il mandante, se c’è, è lui. Poker face, addirittura. Tutto vero.
Ma la politica non è solo machiavellismo, un talent show in cui le ambizioni degli ambiziosi duellano, con “il migliore è chi vince” al posto di “vinca il migliore”. Non si può leggere così la parabola di un uomo a cui tutti – a parte le esagerazioni comicamente servili – riconoscono di essere la carta migliore del mazzo oggi disponibile, ma che non può certo definirsi un eroe dei nostri tempi improvvisati, anche se la lista dei ministri che ha portato venerdì sera al Quirinale mostra lo sforzo di adattarsi faticosamente a un sistema inquietante che al Quirinale dovrà portare lui.
Un uomo del passato
Mario Draghi è un uomo del passato e la sua ambizione è anomala perché coltivata senza fretta. Ha impiegato 55 anni per coprire i dieci chilometri che a Roma separano il liceo gesuita Massimiliano Massimo da palazzo Chigi. Diventa a 73 anni il più anziano premier della storia d’Italia anche se nessuno ci fa caso, come se gli fosse rimasta addosso la patente di giovane yuppie rampante e assetato di potere conferitagli da Eugenio Scalfari negli anni Novanta.
Deve aver percorso sentieri mentali poco machiavellici per accettare un incarico di rango inferiore al precedente – la presidenza della Bce vale molto più di un governo nazionale – e per devolvere a un sistema in decomposizione la sua peculiare figura di tecnocrate con più esperienza politica di tutti i politici. Il suo cammino è stato lento perché rettilineo. Mai una scorciatoia. Sul terreno scosceso dove si incrociano potere e ambizione, ha rigorosamente seguito l’insegnamento della fu Democrazia cristiana e quello ancora vivo dei gesuiti che per la prima volta dopo cinquecento anni hanno conquistato il papato con Jorge Mario Bergoglio. Dunque l’enigma non è Draghi ma la politica italiana intorno alla quale ronza da sempre ascoltando, consigliando e risolvendo. Senza mai scontrarsi né mescolarsi con i politici, ma sempre orientandoli e sempre lasciando a loro la decisione.
Insegnamento gesuita: esercitare la leadership senza voler diventare il capo. Il 24 giugno scorso il ministro degli Esteri Luigi Di Maio incontra Draghi e fa sapere di averne ricavato «un’ottima impressione». Tutti ridono, ovviamente, ma nessuno si chiede come il temibile banchiere abbia conquistato la simpatia del giovane leader. Verosimilmente Draghi ha fatto Draghi, dicendosi felice di poter dare (con umiltà) consigli tecnici al giovane politico e facendolo sentire importante. Così arriva Beppe Grillo alle consultazioni e dice di averlo trovato grillino. Arrivano gli ambientalisti e scoprono che è ambientalista. Non li prende in giro. Sa che il potere non si esibisce a favore di telecamere. Nella liturgia pubblica Draghi officia il potere come sacrificio di sé e ascolto, al servizio del prossimo. Gli interlocutori si chiedono se non sia solo un ipocrita (di cui “gesuita” è talvolta considerato sinonimo). Ma forse questa incertezza racconta solo la mediocrità dei dubbiosi.
Non ci si candida, si attende di essere chiamati. Lo prescriveva anche la tradizione comunista prima della stravagante invenzione delle primarie. Enrico Berlinguer non si candidò mai alla leadership del Pci, fu designato a 47 anni – e dopo 25 di gavetta – dalla generazione precedente. Furono gli ex capi partigiani a preferirlo a Giorgio Napolitano, non il popolo del web.
La leadership solitaria
In un libro del 2009 che rimane la trattazione più completa della «leadership solitaria come peccato» (Il fantasma del leader, Marsilio), Alessandra Sardoni lo fa spiegare a Pier Luigi Bersani (segretario Pd 2009-2013): «Quando un gruppo di persone sono su una barchetta in mezzo al mare, arriva la tempesta, si guardano in faccia e dicono “a chi diamo il timone?”. Quello è il leader».
Insegnamento democristiano: accompagnare la storia senza pretendere di determinarla. Marco Follini, in un libro sobriamente intitolato Democrazia cristiana (Sellerio), ricorre allo scrittore austriaco Robert Musil: «Democrazia, per dirlo con la massima concisione, significa: fai quel che accade». E quindi, commenta Follini, nella Dc «tra il fare e l’accadere andava ristabilito un equilibrio». Musil, nel suo capolavoro incompiuto, dice di più: «La chiamiamo democrazia, ma è soltanto il termine politico per la condizione psichica: si può fare così ma anche in altro modo».
Il tecnocrate Draghi ha sempre due soluzioni, l’ha imparato dai gesuiti. Nella politica italiana 4.0 si sceglie tra due soluzioni quella più conveniente in termini di consenso, con un occhio ai sondaggi. Nella cultura gesuita c’è la scelta sbagliata e c’è quella giusta che piace a Dio. Il linguista francese Roland Barthes (1915-1980) ha studiato accuratamente i testi di sant’Ignazio di Loyola, contemporaneo di Niccolò Machiavelli, fondatore della Compagnia di Gesù e autore tra l’altro degli Esercizi spirituali che si aprono con la frase più celebre: «Todo modo (...) para buscar y hallar la voluntad divina». Il motto ispira a Leonardo Sciascia il titolo del romanzo sugli intrighi di potere tra i democristiani con cui nel 1974 profetizza la tragedia di Aldo Moro. Barthes, se fosse ancora vivo, ci farebbe notare che «todo modo» in inglese si traduce «whatever it takes»: il 26 luglio 2012 l’algido tecnocrate ha sbaragliato la speculazione contro l’euro usando come missili le parole di un santo del Cinquecento.
La tranquillità
Non è un caso. Cinquant’anni fa – mentre Draghi si laureava con Federico Caffè con una tesi scettica sulla moneta unica europea – Barthes studiava (ironia della letteratura) il tema delle “consultazioni” negli Esercizi spirituali: «La lingua interrogativa elaborata da Ignazio, più che la domanda classica delle consultazioni: Che fare?, riguarda l’alternativa drammatica con cui ogni pratica è destinata a prepararsi e definirsi: Fare questo o quest’altro?». Gli Esercizi forniscono istruzioni dettagliate, come una «avvertenza circa la conoscenza delle materie sulle quali si deve fare una scelta» e come una delle tre condizioni per decidere bene, «la tranquillità».
Il Financial Times ha descritto Draghi come «un uomo estremamente calmo in situazioni nelle quali una persona può perdere la testa». Nella biografia di Cecchini l’impassibilità dell’uomo è revocata in dubbio da una sola testimonianza: l’ex ministro del Tesoro Piero Barucci sostiene di averlo visto una volta, all’inizio del 1993, «furente». Le regola ignaziana prescrive un metodo. Studiare il problema («Mi pongo di fronte all’oggetto sul quale voglio fare una scelta, per esempio un ufficio o un beneficio da prendere o lasciare») e usare la propria testa: «Chiedere a Dio ch’egli voglia infondermi nell’anima ciò che debbo fare (...); al tempo stesso riflettere bene e fedelmente con la propria intelligenza». Secondo Cecchini «il metodo Draghi si fonda su quattro verbi declinati all’infinito: identificare l’obiettivo, circondarsi di collaboratori funzionali, delegare, decidere dopo avere ridotto al minimo i rischi». Se non ti affidi alla tua intelligenza puoi solo obbedire.
«Sviluppare il pensiero critico» è ancora oggi tra gli obiettivi del liceo dei gesuiti. Ma anche Caffè, grandissimo economista misteriosamente scomparso nel 1987, predicava tra i suoi studenti l’indipendenza di giudizio. Gli esegeti di Draghi fanno risalire al maestro l’eclettismo teorico e il pragmatismo operativo con cui ha utilizzato gli attrezzi keynesiani portati in Italia da Caffè (John Maynard Keynes, 1883-1946, fu ispiratore negli anni Trenta del New deal di Franklin Delano Roosevelt e teorico della spesa pubblica in deficit come rimedio alle crisi profonde del capitalismo). Non si può dunque prevedere la politica economica del suo governo: Draghi esercita il potere facendo tutto e il suo contrario, fissa un traguardo e cerca la via migliore per raggiungerlo nel contesto dato (todo modo, whatever it takes) anziché fare prove su strada di scommesse teoriche come piacerebbe a molti economisti.
Al servizio degli altri
Il liceo Massimo propone ancora oggi «la formazione di un leader al servizio degli altri». È la chiave del rapporto di Draghi con la politica. Quando irrompe il leaderismo di Silvio Berlusconi, il nostro ha 46 anni ed è uno degli uomini più potenti d’Italia, benché ignoto alle masse. Alla direzione generale del Tesoro l’ha chiamato nel 1991 l’ultimo governo della Prima repubblica, guidato da Giulio Andreotti. Draghi mette al servizio della politica la sua capacità di indicare gli obiettivi e raggiungerli. Riorganizza e ringiovanisce la struttura del ministero. Dota il suo ministro (per primo Guido Carli che gli fa lasciare la cattedra all’università di Firenze) di analisi e soluzioni.
Nell’estate del 1992 il governo di Giuliano Amato, alle prese con una crisi finanziaria terrificante, cerca di dare impulso alle privatizzazioni. Si apre uno scontro durissimo tra il ministro del Tesoro Barucci che spinge e il ministro dell’Industria Giuseppe Guarino che frena. Sui giornali finiscono i nomi dei duellanti, mai quello di Draghi. Però l’allora premier ricorda che il direttore generale del Tesoro «fu vicino a me e a Barucci». Nel 1993 il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi e il presidente dell’Iri Romano Prodi si scontrano con il ministro dell’Industria Paolo Savona, ancora sulle privatizzazioni. Draghi rimane nelle retrovie e fornisce a Ciampi le munizioni tecniche.
Negli stessi mesi Franco Bernabè, amministratore delegato dell’Eni, combatte contro le resistenze politiche al suo piano di risanamento morale del gruppo, bombardato dall’inchiesta Mani pulite. Il direttore generale del Tesoro è tecnicamente l’azionista unico dell’Eni, cioè il capo di Bernabè, ma nessuno si accorge neppure che siede nel Cda. Ventisette anni dopo Bernabè racconta la sua storia (A conti fatti, Feltrinelli) e ci avverte ripetutamente: «Avevo dalla mia parte uomini come Mario Draghi», «mi diede un importante assist», «sapevo che la pensava come me».
L’ingresso nell’euro
All’inizio dell’estate 1996 si insedia il primo governo di Romano Prodi, frutto della vittoria dell’Ulivo su Berlusconi e passato alla storia come primo esecutivo con ministri ex comunisti, primo fra tutti Giorgio Napolitano al Viminale. Al Tesoro arriva Ciampi che deve sistemare i conti pubblici per entrare nell’euro. Ovviamente Draghi conosce il dossier meglio di Prodi e Ciampi che pure sono due economisti di rango.
Il premier lo convoca a palazzo Chigi e il direttore generale del Tesoro gli fa il quadro («C’è da scegliere se fare questo o fare quest’altro»): «Romano, ci sono due opzioni per entrare nell’euro: si potrebbe varare una piccola manovra da diecimila miliardi (di lire, ndr) per il 1997 e rinviare tutto lo sforzo di risanamento all’anno successivo. In questo caso occorrerebbe anticipare a giugno il bilancio per il 1998. Si ovvierebbe così alle resistenze politiche presenti nella maggioranza e ci si adeguerebbe ai criteri tra due anni. Ma saremmo fuori dall’euro, perché anche se la moneta unica parte il 1º gennaio 1999 l’esame dei paesi che possono o non possono entrare si farà sulla base dei dati disponibili a maggio 1998, dunque sui dati del 1997».
«E qual è l’lternativa?», chiede Prodi. «L’alternativa è varare quest’anno una finanziaria pesante in modo da essere in linea con i criteri previsti per il 1º gennaio 1998, in tempo per le valutazioni che Bruxelles farà a maggio». La decisione spetta alla politica ma il tecnico la suggerisce: quattro mesi dopo il governo raddoppia in una notte la manovra finanziaria prevista per il 1997. Saranno Prodi e Ciampi gli eroi dell’euro, Draghi rimane dietro le quinte. Per le sue ambizioni servono i risultati, non la visibilità. Nel 1998 pilota verso l’ok del parlamento il Testo unico della finanza che diventa per tutti la “legge Draghi”. Con le nuove regole sull’Opa (offerta pubblica di acquisto) limita le possibilità del potere finanziario di spolpare i piccoli azionisti di minoranza e obbliga le società quotate in Borsa a pubblicare gli emolumenti dei manager, fino ad allora segreto atomico.
È uno dei rari casi in cui Draghi si batte personalmente. Chi più si arrabbia è il presidente della Fiat Cesare Romiti che proprio in quei mesi sta andando in pensione: solo grazie al tecnocrate i dipendenti della Fiat sapranno che il capo li saluta con una buonuscita da 101,5 milioni di euro, ma la legge Draghi l’ha votata il parlamento.
La scalata alla Telecom
Diverso il caso della scalata alla Telecom del 1999. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema appoggia l’Opa ostile della “razza padana” di Roberto Colaninno. Bernabè, appena traslocato dall’Eni alla Telecom, convoca per il 10 aprile un’assemblea straordinaria degli azionisti per varare le mosse anti-scalata. Serve la presenza almeno del 30 per cento del capitale ed è decisivo il pacchetto del 4 per cento in mano al Tesoro, cioè a Draghi. In una tesa riunione a palazzo Chigi D’Alema sostiene che, in nome della “neutralità”, il Tesoro non si deve presentare all’assemblea. Draghi sa che il governo vuole solo spianare la strada a Colaninno e replica che ritiene suo dovere presentarsi. Ciampi tace. A quel punto, per superare lo stallo, il direttore generale del Tesoro sfodera la sua peculiare concezione del rapporto con la politica: «L’unica soluzione è che tu prenda una decisione di governo alla quale io mi debba attenere». Suggerisce a D’Alema di scrivergli una «lettera d'istruzione politica». Entusiasta, il premier gli chiede di scriversela da solo, già che è così bravo. Nonostante questa dimostrazione di duttilità, D’Alema cerca di farlo fuori, ma senza successo, anche perché un anno dopo sono gli elettori a far fuori lui. Berlusconi invece si fida di Draghi, lo sceglie (insieme a Ciampi presidente della Repubblica) come governatore della Banca d’Italia nel 2005 e lo appoggia nella scalata alla Bce (2011) che pure il banchiere deve soprattutto alla sua rete internazionale di relazioni.
Visione del mondo
Negli anni da banchiere centrale Draghi ha manifestato visione del mondo e princìpi. Le sue uscite, centellinate per un'ossessiva cura dell’immagine, più che al neoliberismo sembrano vicine al solidarismo cattolico e quasi anticipano certe intemerate anti-capitaliste del gesuita Francesco.
Da governatore della Banca d’Italia denuncia il malcostume delle ricche stock option che i banchieri si fanno pagare dagli istituti che amministrano. Nel 2008 minaccia le banche che addebitano ai clienti indebite commissioni: «Nell’ambito dei poteri che ci dà la legge, agiamo sulla base di un chiaro principio: la correttezza nei confronti dei clienti non è solo un obbligo giuridico, è anche presidio di stabilità».
Nel 2009, sull’Osservatore romano, chiosa la Caritas in veritate di Benedetto XVI con un attacco agli eccessi del liberismo: «Un modello in cui gli operatori considerano lecita ogni mossa, in cui si crede ciecamente nella capacità del mercato di autoregolamentarsi, in cui divengono comuni gravi malversazioni, in cui i regolatori dei mercati sono deboli o prede dei regolati, in cui i compensi degli alti dirigenti d’impresa sono ai più eticamente intollerabili, non può essere un modello per la crescita del mondo». Il 5 novembre 2010 il sindacato dei giornalisti del Tg1 accusa il direttore Augusto Minzolini di aver nascosto la denuncia di Draghi sulla necessità di una «pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari».
È il suo modo di esercitare la leadership senza proporsi. Con la crisi finanziaria del 2008 – che in Italia non è ancora finita – il declino in cui si è avvitata la politica è accompagnato dall’annuncio di sempre nuovi Messia competenti: il partito di Montezemolo, e poi quelli di Mario Monti, di Corrado Passera, di Diego della Valle, di Renzi, di Calenda, di Bonino.
Draghi ha aspettato che lo chiamassero non solo perché così gli hanno insegnato i gesuiti ma anche perché, contrariamente alla sua apparenza ingessata, candidarsi gli è vietato da un senso dell’umorismo – che è anche senso della vita – incompatibile con l’idea di poter fondare un partito personale e quindi ignoto a quelli che si mettono il cappello da Napoleone. Gli aspiranti uomini forti che ha visto cadere (da Amintore Fanfani a Bettino Craxi, a D’Alema, Berlusconi, Renzi) sono stati inseguiti dai lazzi degli stessi che li avevano applauditi, la farsa con cui si è ripetuta la tragedia originaria: l’archetipo del signor “ci penso io” rimane Benito Mussolini e, dopo di lui, chi si è proposto come capo indiscusso è durato quanto la pazienza di un popolo sempre pronto a riderti dietro.
Il segreto di Draghi è che, mentre ti fissa tutto serio, sa che vincerà ridendo per primo. Per esempio quando qualcuno gli chiederà come gli è venuto in mente che Maria Stella Gelmini dovesse entrare nel suo governo dei migliori.
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