La maggioranza è a un passo dalla rottura. Il giorno cruciale è il 9 dicembre, quando andranno in scena in parlamento due voti su cui i Cinque stelle sono irrimediabilmente spaccati: quello sulle modifiche al decreto Sicurezza e, ancor peggio, quello sulla riforma del Meccanismo salva stati.

A una settimana dal confronto, in aula arriva a metà pomeriggio la lettera, firmata da una quarantina di deputati e sedici senatori, rivolta ai vertici del Movimento, in cui i parlamentari denunciano di non poter votare il testo di riforma del Mes proposto nei giorni scorsi così com’è. Tra i firmatari anche il sottosegretario Alessio Villarosa e le ex ministre Barbara Lezzi e Giulia Grillo. Un appoggio ampio, che si è leggermente sfrondato col progredire delle ore, anche se resta un saldo nucleo di oppositori. Seppur trovandosi di fronte a un veto decisamente meno forte, il governo dovrà fare la massima attenzione anche durante il voto sulle modifiche al decreto Sicurezza, dove alla Camera mancano all’appello almeno quindici voti grillini.

Numeri che stavolta fanno davvero preoccupare il governo, perché non si tratta soltanto dei fedelissimi di Alessandro Di Battista, sempre più in opposizione alla linea di governo. Anzi, l’ex deputato si sta volutamente tenendo alla larga da documento anti Mes per non costringerlo nel piccolo recinto dei parlamentari a lui più vicini. Uno scontento che si andava cristallizzando da qualche giorno. Dopo l’audizione del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, a cui i Cinque stelle avevano fatto tutte le domande ostili del caso, i pentastellati si erano ritrovati di fronte a un sostanziale via libera del governo alla modifica, spalleggiata anche dal Capo politico Vito Crimi con un freddo comunicato. Una sconfessione di una storica posizione del Movimento che i gruppi non gli hanno perdonato. «Come fai a buttarti alle spalle anni di lotte del Movimento liquidandole con un comunicato?», dice un firmatario membro del Team del futuro, l’organismo collegiale di governo mai davvero operativo.

Il sospetto verso il Mes

Insomma, un accordo drammatico, che tra l’altro, dicono i parlamentari pentastellati, «nessuno ha autorizzato Gualtieri a concludere». Nel documento si legge che le uniche condizioni per cui si possano rimettere assieme i pezzi del gruppo parlamentare del Movimento è «la chiusura di tutti gli altri elementi (Edis e Ngeu, la garanzia dei depositi dell'unione bancaria e Next Generation Eu, ndr) delle riforme economico-finanziarie europee in ossequio alla logica di pacchetto, o in subordine, a rinviare quantomeno gli aspetti più critici della riforma del Mes sopra menzionati».Per porre un punto alla questione nella risoluzione di maggioranza che sarà presentata la settimana prossima contestualmente al voto dovrà essere quindi messa nero su bianco o la certezza che il Mes non verrà mai utilizzato dall’Italia (ed è impossibile che il Pd accetti una clausola simile), o un rinvio della firma, oppure un nuovo negoziato per portare a casa il pacchetto completo di garanzie e regole sugli Eurobond.

Il voto

«Ora come ora non ci sono vie d’uscita per il voto di mercoledì», dice contestualmente alla pubblicazione della lettera una fonte di governo. Sono partiti immediatamente tentativi febbrili di ricucire interni al Movimento e il lavoro dei pontieri bipartisan della Commissione affari europei per trovare la formula migliore da inserire nella risoluzione per scongiurare un incidente. Anche perché, stavolta, la stampella di Forza Italia a cui guardano con speranza i parlamentari dell’ala governista non potrà esserci: il partito di Berlusconi si è sfilato martedì dal Sì alla riforma e, per quanto alcuni senatori possano uscire dall’aula abbassando così il quorum, difficilmente saranno in troppi a disattendere la linea del capo. Insomma, l’unica possibilità è recuperare i “frondisti” da qui a venerdì, quando ci sarà un’assemblea dei parlamentari, e porgergli un ramoscello d’ulivo con un formulazione che assicuri che per attivare il Mes sarà indispensabile un passaggio parlamentare.

La partita di Di Maio

Pur essendo citato per conoscenza tra i destinatari della lettera dei ribelli, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio resta ai margini dello scontro. Mentre in serata si attivano i vertici vicini al capo politico Vito Crimi, Di Maio guarda la questione da lontano. Anche perché in sottofondo si consuma ancora la storia infinita degli Stati generali, conclusi ormai più di due settimane fa senza che si veda all’orizzonte neanche il voto sugli esiti, figurarsi la pubblicazione delle regole per la candidatura all’organo direttivo collegiale. In tutto ciò, Di Maio ha lanciato la sua linea di contatto personale con l’elettorato, annunciando in una diretta social un ciclo di incontri Zoom sul modello delle Agorà, gli appuntamenti pubblici del Movimento, con chi fosse interessato a parlare col ministro degli Esteri di Made in Italy. Questo mentre Crimi dovrebbe far partire a giorni la seconda parte degli Stati generali, quella incentrata proprio sui contenuti del programma. Una scommessa in cui l’ex capo politico cerca di capitalizzare il prestigio che si è guadagnato internamente e nelle missioni estere e che ora distilla in posizioni riflessive e moderate, apprezzate addirittura dalle opposizioni. Un piano che sembra avere un respiro più ampio dell’organo collegiale, magari diretto verso Chigi, e che non può essere sporcato da beghe interne che possano intaccare l’immagine responsabile che il ministro si sta creando. «Non si possono più vendere certi temi di lotta, ma Luigi è diventato un rappresentante di affidabilità e stabilità» dice un senatore dell’ala governista. Anche perché le istanze del rivale Di Battista hanno presa sugli attivisti, ma per molti parlamentari restano utopie irrealizzabili: «Manca la conoscenza della realtà di governo e spesso sul modo in cui propone i temi pesa l’ingenuità», dice un deputato. «Nell’organo collegiale il riferimento per qualsiasi governo rimarrebbe Di Maio, mentre Dibba potrebbe rimanere nel migliore dei casi un’ispirazione per una parte del Movimento».

 

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