Un articolo di Marco Belpoliti (Patrioti, nazione e tradimento: le parole di Meloni e l’eredità missina) pubblicato su Repubblica il 26 settembre, ha etichettato come «inconsciamente» nostalgiche quattro parole su cinque fra le più ricorrenti nel vocabolario di Giorgia Meloni: nazione, morto, patriota, tradimento.

La prima, preferita al più “intimo” e familiare paese, oltre a essere, «nonostante il suo forte valore emotivo, uno dei vocaboli più incerti e vaghi del linguaggio politico della modernità», si farebbe portatrice di valori sospetti (di difesa del suolo italico e dei suoi confini, della cultura, della civiltà e dell’identità italiana e occidentale, ecc.) al pari di patriota invece di cittadino (parente stretto del citoyen portato sugli scudi dalla Francia rivoluzionaria).

Dietro i morti, se non i camerati missini defunti, si celerebbero i repubblichini («nel fascismo di Salò, modello ideale della vecchia guardia del Movimento sociale italiano, c’è il gravame della morte, della “bella morte”»).

L’ultima della quartina, ipotizza Belpoliti, potrebbe rievocare addirittura il tradimento dell’8 settembre 1943, «quando dopo l’arresto di Mussolini il maresciallo Badoglio trattò la resa con gli angloamericani».

La quinta parola della serie, «responsabilità», l’unica a proiettare nel futuro il disegno politico meloniano, testimonierebbe la presumibile aspirazione della leader di Fratelli d’Italia a mettersi alla guida di una «forza politica che supera il proprio retaggio storico fiamma compresa».

Sarà. Un serio problema interpretativo, riguardo il lessico politico preferito da Giorgia Meloni, si pone anche sul fronte opposto, di un giornalismo di (centro)destra per il quale tradimento – ai danni degli italiani, ovviamente – sarebbe nientemeno che un residuato del codice cavalleresco dell’età di mezzo: «Uno dei pilastri della cavalleria era quello di mantenere la parola data, a qualsiasi costo.

La letteratura europea, da Chrétien de Troyes in poi, è piena di passaggi bellissimi su questo tema. Il tradimento, allora, provocava vergogna e disonore. E lo ha fatto per lungo tempo, ben prima del fascismo» (Matteo Carnieletto, Le cinque parole della Meloni che la sinistra non può capire, Il Giornale, 27 settembre).

L’unità d’Italia

Boutade a parte sulle presunte reminiscenze della lealtà politica e militare del mondo arturiano, il vocabolario prediletto da Giorgia Meloni, condito di un certo gusto per un’espressività romanesca speziata di qualche vocabolo che non ti aspetti (barbatrucco) o di neologismi o quasi neologismi più o meno improvvisati, da filo-niente («Quante volte io mi sono sentita domandare “Ma lei è filotrumpiana, filo-Putin…? No, io non so’ filo-niente. I fili ce li hanno i burattini, mi è capitato di dire. Io sono una italiana, patriota», Cartabianca, 22 febbraio 2022) a nomadare, è senz’altro figlio di una tradizione conservatrice ma (post)risorgimentale più che fascista, sebbene i trascorsi socialisti del Duce possano indurre ad attribuire al regime l’appropriazione di una discreta parte del patrimonio lessicale della sinistra ottocentesca. Perfino il peggiorativo patriottardo, poi accolto, oltreché da Mussolini, da Anna Kuliscioff e da Filippo Turati, appare per la prima volta sull’Avanti: I patriottardi sono tornati (23 giugno 1897).  

Patria (dunque anche patriota, che è pure renziano) e nazione si consegnano definitivamente l’una alle braccia all’altra con l’unità d’Italia. Il nuovo regno fu proclamato il 17 marzo 1861. Il parlamento torinese aveva appena approvato la relativa legge, composta di un unico articolo; a pronunciarsi prima il Senato (28 febbraio) e due settimane dopo la Camera dei deputati (14 marzo), la prima dell’Italia unita.

L’11 marzo, all’atto della presentazione del progetto legislativo, Cavour aveva parlato dell’Italia come di una «nobile nazione» unita nella «stirpe», nella «lingua», nella «religione»; un paese che, dopo tre secoli di servaggio, si era finalmente risvegliato apprestandosi a diventare “uno” anche «di reggimento e d’istituti» (Camillo Benso conte di Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di Armando Saitta, vol. XV, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 412).

Nazione

In latino classico natio, oltre a “nascita”, “tipo, genere”, “categoria, razza” (anche animale), riassumeva in sé altre accezioni, tutte concrete, riferite ad ampi o più ristretti insiemi di persone, accomunate dalle origini familiari (“stirpe”), dalla posizione occupata nella scala dei valori economico-sociali (“ordine, classe”), dal perseguimento di un determinato ideale o obiettivo, anche partigiano o disonesto (“genia, setta”), dall’appartenenza a una comunità urbana o rurale (“tribù”), un’entità etnico-linguistica, un’intera popolazione.

L’italiano nazione, documentato fin dal Duecento, ha recepito tutti questi significati, aggiungendone via via altri. Nuovo di zecca, alla fine del Settecento, quello di «comunità umana che, sul fondamento dei valori etnico-geografici e storico-culturali, si dà una struttura politica statale – e in ciò richiama stato, appunto, e repubblica –, cui può riferirsi una parte dei connotati etico-politici propri di patria» (Erasmo Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1991, p. 219).

Nel 1861 il processo d’identificazione fra i due concetti di patria e nazione, già avanzatissimo a quell’altezza cronologica, può dirsi concluso; col raggiungimento dell’Unità nel nuovo soggetto territorialmente sovrano la componente politica e quella geografica divengono «rigorosamente interdipendenti, poiché l’allargamento dell’area di nazione a tutta l’Italia non presuppone nulla di meno di una rivoluzione politico-istituzionale» (ibid., p. 221).

Le modalità di realizzazione del nazionalismo fra lo scorcio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, con gli attributi – positivi o negativi – in grado di fissarle (liberale, democratico, radicale, imperialista, totalitario, ecc.), specie con riferimento al decennio 1912-1922, sono debitrici, a vario titolo, di quella «nuova idea di nazione, nuova soprattutto per la sua connessione con il principio della sovranità popolare» (Emilio Gentile, Né stato né nazione. Italiani senza meta, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 41), sbocciata – la Rivoluzione francese nel mezzo – fra l’età illuministica e la stagione romantica: da una parte la ragione laica e cosmopolita al servizio della collettività, con le sue ultrasensibili corde civiche, dall’altra lo “spirito del popolo” (Volksgeist) chiamato a difesa dell’unicità nazionale e dell’unità di lingua, cultura, costumi, tradizioni che consentono di ritenerla tale.

Responsabilità

Quanto a responsabilità, a parte due recenti gruppi di parlamentari responsabili (leggi: “fluttuanti”) – i deputati di Iniziativa responsabile (poi Popolo e territorio) che hanno fatto da stampella (2011) al quarto governo Berlusconi e i senatori a sostegno (2021) del secondo governo Conte –, direi che il termine, se si vuol concordare con Belpoliti nel ravvisarvi il tentativo della futura premier di provare a scrollarsi di dosso il passato puntando a nuovi modi di fare politica, potrebbe senz’altro opporsi – stando agli ultimi sviluppi della discontinuità della sua linea – a ricattabilità.  

Da una parte una Meloni furiosa per il mancato appoggio di Forza Italia nell’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato e per gli appunti berlusconiani sui modi supponenti, prepotenti, arroganti, offensivi di una leader («tra quelli elencati da Berlusconi», ha dichiarato, «mi pare mancasse un punto: che non sono ricattabile») indisponibile ai cambiamenti.

Dall’altra un Cavaliere inesistente – Meloni è una donna, diamine – cui si adatta bene quest’affermazione del poeta e scrittore iraniano Saeed Habibzadeh: «Per le persone indisciplinate, che vogliono ricevere tutto servito su un piatto d’argento, la responsabilità è un peso di cui si vogliono liberare» (Il trionfo dell’amore sull’ego).

© Riproduzione riservata