- «La leader Fdi non è un’alleata di Orbán sul terreno internazionale, chiede che l’Europa non metta il naso dentro i singoli paesi. Ma sulla politica estera ha preso una posizione ben diversa».
- «Sull’Europa dice: con me l’Italia difenderà i suoi interessi nazionali come fanno gli altri. Poi come tutto questo si possa tradurre concretamente nel contesto europeo è tutto da vedere».
- «I cento anni dalla Marcia su Roma saranno per lei sarà un passaggio simbolico importante, non potrà non dire nulla. Ma anche per i suoi avversari e la sinistra: se avrà l’eterna tentazione di continuare a utilizzare il tema dell’antifascismo come strumento di opposizione».
Secondo il professore Giovanni Orsina, politologo, storico, studioso di populismi, Giorgia Meloni vorrà conservare una certa antropologia identitaria. Nel recente ritorno di fiamma per i falangisti di Vox vede anche un calcolo elettorale. Ma se la presidente Fdi governerà non spingerà sul tasto nero. E le minacce nucleari di Putin non la spingeranno fra le braccia del filoputiano Orbán.
Professore Orsina, la minaccia nucleare di Mosca mette nei guai la pur atlantista amica di Orbán Giorgia Meloni?
No, il problema si pone semmai a Matteo Salvini. Ma lei non è un’alleata di Orbán sul terreno internazionale, non mi pare sia questo il profilo che si vuole dare. Lei dice che l’Europa non dovrebbe mettere il naso dentro i singoli paesi, sulla loro organizzazione interna. Ma sulla politica estera ha preso una posizione ben diversa da quella di Orbán e più vicina a quella dei polacchi, che sono saldamente antirussi. Ci sono due canali che si intersecano: uno è quello del rapporto fra sovranità nazionale e Ue, e l’altro quello delle alleanze internazionali. L’appoggio di Meloni a Orbán vale su un versante, mi pare, ma non sull’altro.
Il modello Orbán è reazionario, sui diritti civili e non solo. Meloni sul diritto di aborto è formalmente cauta, ma se dovesse vincere si caricherà di una proposta anche culturale regressiva, “anti gender” per usare le parole meloniane, o manterrà un profilo meno scivoloso?
Meloni non può rinunciare a fare un discorso suo sulla “biopolitica” perché per la destra questo è un tema identitario. Ma l’impressione è che proporrà la conservazione di quel che c’è, non il regresso. Insomma, è evidente che con un governo Meloni non ci sarà un allargamento del diritto di aborto, ma neanche un restringimento. Quando dice “ci teniamo la 194”, aggiunge qualche corollario identitario, ma in fondo dà un messaggio di conservazione. Lo stesso vale per altri diritti: un governo di destra non farà il ddl Zan, ma non cancellerà le unioni civili. Sarebbe impopolare, oltretutto.
All’inizio della campagna elettorale Meloni ha cercato di rassicurare e di presentarsi come una leader affidabile. Ora torna alle simpatie per la destra falangista e tradizionalista di Vox. Ha perso il controllo nel rush finale, o è un calcolo elettorale?
Direi un calcolo. I toni di quest’ultima settimana stanno salendo da tutte le parti, ormai è il momento in cui bisogna motivare gli elettori. Ma in questa scelta c’è anche un tentativo, vedremo quanto riuscito e quanto realistico, di trovare un equilibrio fra la dimensione identitaria e la realtà con cui ci si deve misurare. Il che vuol dire che dovrà temperare i toni identitari, perché nella loro forma pura rischiano di entrare in conflitto con il contesto europeo. Il legame con Vox esiste. Il tema di Orbán, ripeto, non credo significhi un consenso su quello che fa lui in Ungheria quanto la convinzione che l’Europa debba rispettare la sovranità degli stati. Non vuol dire “facciamo come l’Ungheria”.
E quel «è finita la pacchia» in direzione della Ue, detto da Meloni, cosa significava?
È un tema sul quale torna spesso: la convinzione che l’Italia non si sia difesa sui tavoli europei e non abbia negoziato con sufficiente forza in difesa dell’interesse nazionale. Vuol dire: con me anche l’Italia difenderà i suoi interessi nazionali come fanno gli altri. E qui vedo una critica, prima ancora che a Germania o Francia, agli italiani presunti cedevoli. Poi come tutto questo si possa tradurre concretamente nel contesto europeo è tutto da vedere.
Orbán certo non dirà “prima gli italiani”.
In questo sono draghiano: se il nostro punto di vista è l’interesse nazionale italiano, allora la nostra politica europea non può certo far perno sull’Ungheria o la Polonia. Il cuore di quella politica non può che essere un’interlocuzione serrata con Francia, Germania, Spagna. Fermi restando i buoni rapporti, se possibile, con tutti.
Però la Spd tedesca, che è il partito di Scholz, cancelliere e leader europeo, paventa il pericolo di un governo post fascista in Italia. Per l’Europa siamo un paese sotto osservazione?
Siamo osservati speciali, e un’eventuale vittoria di un’alleanza di destra in Italia, con al centro un partito dei Conservatori e riformisti, sarebbe un grosso boccone amaro da digerire per l’Unione. Anche perché una volta che ti siedi al tavolo con Meloni non potrai dire più che Vox è un partito illegittimo, e magari si aprirà il tema di Marine Le Pen, anche se non credo quello della tedesca Afd. Insomma: potrebbe aprirsi un processo di rilegittimazione delle destre. In più si dovrà ripensare a un Europa in cui, in alcuni paesi cruciali, governano dei nazionalconservatori, meno favorevoli all’integrazione e più alla difesa delle sovranità nazionali. Ma tutta questa lettura europea dell’Italia non è mica oggettiva, super partes. È politica: un socialdemocratico tedesco non può che vedere questa evoluzione come fumo negli occhi. Ma non è l’Europa che parla, i popolari hanno un altro punto di vista. Cosa poteva dire Scholz? Anzi che ha detto solo “post fascisti”, del resto Meloni lo è.
L’opaca vicenda dei report dell’intelligence Usa dice che siamo osservati speciali anche da quella parte dell’Atlantico?
Quella vicenda non era puntata solo sull’Italia ma è ovvio che gli Usa sanno che in Italia c’è una campagna elettorale. Per come ho potuto capirla io, è stato uno shot in the dark, uno sparo nel buio, un segnale del tipo “ragazzi, comportatevi bene”. Un segnale non molto raffinato, mi vien da dire. Ma chiaro, e analogo a quello che invece ha dato esplicitamente di Draghi: le linee rosse non vanno superate.
La “post fascista” Meloni è insofferente alle contestazioni di piazza. Un assaggio di quello che farà dopo?
Ma no. Non c’è un “allarme fascismo”, e Fratelli d’Italia non è un partito neofascista. E se anche lo fosse l’Italia è una democrazia solida. È la campagna elettorale. Intanto Meloni ha un certo bel carattere, poi, sì, nelle sue reazioni c’è una storia di vittimismo utilizzata anche in chiave elettorale. Sta utilizzando le contestazioni, e la mancata difesa da parte della ministra Luciana Lamorgese, per descriversi come perseguitata dalla sinistra. Ma da qui a trarre segni di una successiva torsione autoritaria, no: lo può fare solo chi vede fascisti dappertutto. L’impazienza per le contestazioni peraltro non è un’esclusiva dei politici di destra, anzi.
La cito: Meloni non ha superato la sindrome delle fogne?
È un’espressione che ha destato irritazione. Me ne sono dispiaciuto, cerco di non essere mai irrispettoso nei confronti di nessuno, e in realtà avevo in mente la rivista di Marco Tarchi, degli anni Settanta, che con intenzione autoironica si chiamava La voce della fogna. Intendevo la sindrome minoritaria, da ghetto, vissuto come gabbia ma anche protezione e alibi. Questa sindrome è stata già superata dai sondaggi, se ti danno al 25 per cento tu oggettivamente non sei più nel ghetto. Il problema è che bisogna abituarcisi a vivere, fuori del ghetto, abituarsi a essere un partito importante e di governo. Se la destra vincerà le elezioni, è questa la prova alla quale sarà chiamato il partito di Meloni.
Ma lei dice che una certa identità FdI vorrà e dovrà conservarla. Traduco: la fiamma resterà nel simbolo ma non arderà più?
Se vuole usare questa metafora. FdI è un partito che vuole conservare un legame con la sua storia, ma è un legame antropologico più che ideologico, mi sembra. Credo si siano resi conto che in quella storia ci sono materiali non più utilizzabili, e altri che sono del tutto sbagliati. La direzione che disegnano oggi è diversa.
La polarizzazione dello scontro ha fatto bene più a Meloni o a Letta?
Vedremo i risultati, mi pare non a Letta, senza una coalizione all’altezza non può contrapporsi davvero. Mentre a lei l’ha aiutata ad accreditarsi come leader.
Il 28 ottobre saranno cent’anni dalla Marcia su Roma del fascismo sorgente. Tanto più se vincerà le elezioni, per Meloni le parole che dirà quel giorno saranno un esame di maturità?
Sarà interessante sentire cosa dice, se vincesse quei giorni potrebbero persino coincidere con quelli del suo incarico a premier. Sarà un momento nel quale il cuore dell’Italia perderà un battito e cercherà di capire come vuole ragionare su quella storia. Per lei sarà un passaggio simbolico importante, non potrà non dire nulla. Ma anche per i suoi avversari e la sinistra: se avrà l’eterna tentazione di continuare a utilizzare il tema dell’antifascismo come strumento di opposizione, facendo a mio avviso del male a sé stessa e al paese.
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