- Mettere in sicurezza il territorio è la parola d’ordine di tutti i governi, ma in realtà è un obiettivo impossibile. Ci sono luoghi pericolosi dove, semplicemente, non dovrebbero essere previsti insediamenti umani.
- Spostare le persone, però, è difficilissimo per uno stato senza più soldi e competenze: non solo le demolizioni vanno realizzate, ma nuovi luoghi di insediamento devono essere previsti e nuove pianificazioni, sicure questa volta, devono essere elaborate.
- La messa in sicurezza inoltre è un’attività di lungo periodo, come la scomparsa dei terrazzamenti agricoli da Ischia e il loro ruolo nel disastro ha dimostrato. Servirebbe reclutare una nuove generazione di “manutentori”, ma di questi non si vede traccia.
Il disastro di Ischia ha riportato all’attenzione questioni antiche che stanno diventando sempre più contemporanee. Nell’Italia del XXI secolo l’impegno dello stato per fare fronte ai disastri è andato crescendo tanto da trasformare l’identità stessa dello stato: sempre di più uno stato indennizzatore, una sorta di assicuratore di ultima istanza di un territorio sempre più fragile in un mondo sempre più rischioso e turbolento, ed uno stato ricostruttore. Viceversa, ad essere ancora molto in discussione è il ruolo dello stato come mitigatore dei rischi (ovvero quello che comunemente viene definita come prevenzione).
Non solo abusivismo
La questione è complessa ed è comprensibile si cerchino spiegazioni relativamente semplici. Che l’abusivismo sia uno dei fattori che contribuiscono al prodursi dei disastri è indubbio – è molto più probabile che un abitato abusivo si trovi in aree dove era desiderabile non vi fossero abitati. Che i problemi dipendano esclusivamente dall’abusivismo è viceversa una semplificazione.
Se fosse così, i territori nei quali l’abusivismo è storicamente poco presente dovrebbero risultare poco colpiti da tali disastri. La grave sregolazione degli usi del territorio in Italia di cui periodicamente scopriamo gli elevati costi sociali ed ambientali – oltre che economici – è un fenomeno ben più ampio che non si esaurisce nell’abusivismo, bensì lo ricomprende. Scelte perfettamente legali e legittime possono anch’esse rivelarsi largamente sub-ottimali dal punto di vista della protezione degli equilibri ecologici e della popolazione da una varietà di rischi. In Veneto, ad esempio, il problema non è l’abusivismo, bensì il modello legale e legittimo di consumo e dissipazione del territorio.
Così la generica parola d’ordine del «mettere in sicurezza il territorio» rischia di essere troppo pericolosamente retorica. Perché suggerisce l’idea che si possa sostanzialmente proteggere la popolazione umana in qualsiasi condizione di insediamento e in più che lo si possa fare in un contesto nel quale, stanti gli effetti crescenti del cambiamento climatico, porzioni considerevoli del territorio saranno esposte a rischi prevedibilmente più frequenti e più intensi.
Viceversa, in una varietà di situazioni, è proprio l’organizzazione complessiva del territorio e la localizzazione di abitazioni, imprese e infrastrutture a dover essere profondamente ripensata, legittima o “abusiva” che sia. Ma per fare questo ci vuole un’azione pubblica lungimirante, ed uno stato dai potenti mezzi organizzativi e dalla forte legittimazione popolare. Le demolizioni degli immobili “abusivi” non si fanno per diverse ragioni – la prima è la mancata allocazione di risorse per realizzarle – ma anche perché implicherebbero di fatto ripianificazioni, dislocazioni e ricostruzioni: ovvero operazioni molto complesse, che hanno a che fare con diritti privati ed interessi pubblici, e che hanno bisogno di strategie di lungo periodo, conoscenze specialistiche ed un forte coinvolgimento della popolazione.
Tutte cose che uno stato con il fiato cortissimo a causa di un ventennio di dismissione delle sue capacità e conoscenze non è, nella condizione attuale, in grado di fare. E se non è in grado di farlo nemmeno in presenza di un “abuso” lo è ancora meno quando si tratta di compiere scelte così difficile in relazione a insediamenti che sono perfettamente legali, ma egualmente esposti a rischi crescenti. Che siano gli stabilimenti sulle spiagge esposte all’erosione o gli abitati in aree di rischio idrogeologico, non tutto il territorio può essere “messo in sicurezza” come se fosse integralmente abitabile a qualsiasi condizione.
Quello che si può e deve fare è invece riorganizzare profondamente questi territori, per renderli ancora abitabili ma in modi diversi da come lo sono oggi: ma per fare questo, per l’appunto, ci vuole una forte mobilitazione pubblica (risorse, personale, conoscenze, mandato politico).
In sicurezza ma come?
Oltre alla questione della sua indefinita estendibilità sul territorio, la parola d’ordine del «mettere in sicurezza il territorio» semplifica troppo anche la questione del come. Di frequente, i disastri illustrano gli squilibri prodottisi lungo la traiettoria di modernizzazione di un territorio specifico. Laddove lungo queste traiettorie antiche economie sono crollate – a Ischia si è detto del ruolo giocato dalla fine dell’agricoltura che aveva terrazzato il Monte Epomeo – sono crollate di frequente anche le capacità diffuse di leggere, conoscere, manutenere il territorio che quelle economie portavano con sé.
Molti dei disastri contemporanei sono da intendersi anche – anche, non esclusivamente – come esito di questo crescente disaccoppiamento fra l’appesantirsi della nostra impronta sul territorio ed il ridursi della nostra capacità di comprenderlo perché semplicemente non lo gestiamo più. L’idea degli interventi infrastrutturali risolutivi è da questo punto di vista semplificatorio, perché permette di rimuovere completamente questa componente del problema: ovvero la necessità di ricostruire un rapporto consapevole, e diffusamente consapevole, con il territorio ed i rischi crescenti cui è esposto.
Laddove queste economie che generavano modi di curare il territorio non esistono più abbiamo due scelte: quella di farle risorgere dove possibile oppure quella di produrre la cura e la manutenzione che queste generavano in altri modi. In entrambi i casi, ancora una volta, questo non sarà mai possibile senza un’azione dello stato. Ed una cosa che lo stato italiano si ostina a non fare, è il reclutare una generazione di nuovi specialisti pubblici che si occupino di curare, manutenere, reiventare il territorio costruendo una nuova relazione fra questo e chi lo abita.
Non sarebbe certo l’unica cosa da fare, ma rappresenterebbe un passo deciso verso uno stato che smetta di essere solo l’assicuratore di ultima istanza ed il ricostruttore e che divenga anche uno stato che cura, riabita e ricostruisce legami fra gli italiani ed il territorio difficile che abitano. Dopo ogni disastro, come sempre, la cosa più difficile da ricostruire rimane l’azione pubblica.
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