- Il 2 agosto l’Agcom (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) ha diffuso la notizia di aver multato per 750mila euro Google e per 700mila Top Ads Ltd per la violazione – su Youtube – del divieto di pubblicità del gioco d’azzardo.
- L’episodio, pur circoscritto alla materia dell’azzardo, illumina una questione di principio. Se una legge redatta al tempo social è stata scritta in modo da non lasciare scappatoie, perché non fare altrettanto per altri divieti scritti nelle leggi?
- Perché ad oggi è escluso che un “privato” che si ritenga danneggiato possa, analogamente all’Agcom del 2 agosto, chiamare in causa sia la piattaforma che il creator avanti a un giudice, che decida se, quale e quanta debba essere la sanzione?
Il 2 agosto l’Agcom (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) ha diffuso la notizia di aver multato per 750mila euro Google e per 700mila Top Ads Ltd «per la violazione – su Youtube – del divieto di pubblicità del gioco d’azzardo sancito dall’art. 9» del cosiddetto decreto Dignità.
La cosa, ed è un peccato, s’è persa nel trambusto della crisi di Governo, ma merita di essere esaminata da vicino anche se l’Agcom, senza affrontare la questione chiave della responsabilità dei social riguardo a quanto pubblicano, si è tenuta stretta al dettato di una legge che parla del gioco d’azzardo e non di altro.
In questo caso è stabilito che, se il divieto di propaganda viene infranto, ne sono responsabili «committente, proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e organizzatore della manifestazione, evento o attività».
Presi in questo elenco completo e dettagliato, per i social non c’è lo scampo di rifugiarsi nell’argomento di essere mere piattaforme tecniche, semplici postini che non rispondono di quanto recano in busta sigillata.
Tanto più che il sito incriminato era palese e che il “postino” Google «aveva stipulato un contratto specifico di partnership, riconoscendogli – in quanto creator – lo status di partner verificato».
Non per nulla tv, radio e giornali, altro che postini, sono prodotti editoriali con tanto di direttore responsabile e si guardano dai ricavi di quella propaganda.
Social e stati
L’episodio, pur circoscritto alla materia dell’azzardo, illumina comunque una questione di principio. Se una legge redatta al tempo social è stata scritta in modo da non lasciargli scappatoie, perché non fare altrettanto per altri divieti scritti nelle leggi?
Poiché la questione è ineludibile, l’Agcom con quella sanzione irrogata a carico di Google ha stilato un promemoria rivolto al prossimo parlamento, affinché regoli la responsabilità dei social quando la comunicazione se ne infischia della legge e si fa beffe dello stato.
Privati
Che dire tuttavia del caso in cui il danneggiato sia un “privato”, come chiunque stia leggendo queste righe? Può costui, nel caso si ritenesse offeso e danneggiato, farsi Agcom per sé medesimo e chiamare in causa sia la piattaforma che il creator avanti a un giudice, che decida se, quale e quanta debba esser la sanzione?
La risposta, come sappiamo, è negativa, perché questa più ampia responsabilità editoriale dei social nei confronti non di questo o quel divieto, ma dei diritti delle persone in quanto tali, non trova al momento l’esplicito supporto di una legge.
Il vuoto nelle leggi
Al contrario, i paesi in cui agiscono account social americani (e quel poco di locale che li emula) lasciano agire per inerzia il paragrafo 230 del Decency Act USA del 1996, che prende Google, Facebook e Twitter solo per “provider”, fornitori di prestazioni meramente tecniche al servizio dei messaggi altrui, proprio come fossero bacheche senz’anima o servizievoli e postini.
Tanto da scampare dalla responsabilità propria dei “publisher”, cioè degli editori dei contenuti su tv, radio e giornali.
Si potrebbe dire che quella salvaguardia aveva un senso e agevolava il decollo di un settore a metà degli anni Novanta, quando i social non c’erano e le app erano un mistero.
Ma col nuovo secolo tutto è cambiato e l’irresponsabilità sta producendo montagne di miliardi e uno sviluppo intossicato.
Soluzione semplice ma conflittuale
Sul piano più concreto ed evidente basterebbe distinguere fra i contenuti a corto raggio e quelli ritenuti notiziabili.
Dei primi già oggi i social fanno soltanto da postini mentre sui secondi scatta l’”amplificazione personalizzata” ovvero la scelta, quanto mai editoriale, di evidenziare questo o quello in funzione dei profili d’utenza analizzati.
A dirla in breve, i social, se e quando ci mettono lo zampino, si autodichiarano editori responsabili.
Certo, inutile nasconderlo, ne va di mezzo un confronto a dir poco schietto con gli Stati Uniti, che dei social finora hanno protetto il modello di business da rapina (sebbene il Senato stia da ultimo dando attenzione ad analisti che spingono a mutamenti strutturali non dissimili da quelli qui accennati).
Ma i soldi in questione sono tali e tanti e talmente fondati sulla de-regolazione primitiva, che le regole europee comunque li minacciano a partire da quelle su privacy e mercati online, dalle sentenze contrarie al sequestro dei dati nei server americani fino alle incursioni chirurgiche delle Agcom nazionali.
Per cui lo scontro è meglio prepararlo piuttosto che cercare di evitarlo.
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