Nei programmi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia non si parla di riforme pro mercato. L’unico impegno di Giorgia Meloni è quello di contrastare la concorrenza sleale, senza mai citare una vera apertura
- Nel programma del partito di Giorgia Meloni, la parola concorrenza compare per ben cinque volte: in quattro casi, l’80 per cento, è affiancata dall’aggettivo «sleale».
- Forza Italia ha messo da parte qualsiasi proposta sulla facilitazione di fare impresa contro le resistenze corporative. Nel suo programma sparisce quindi qualsiasi ambizione di liberalizzazioni.
- Nei documenti presentati agli elettori, non c’è un riferimento nemmeno sulla regolamentazione delle lobby, che possono stare tranquille: se i sondaggi saranno confermati, nessuno proverà a scalfirle.
Nessuno che parli di facilitazione della concorrenza, di un progetto di liberalizzazione, né tanto meno di una qualche iniziativa di regolamentazione per le lobby. Dalla lettura dei programmi elettorali dei partiti di centrodestra, non emerge alcun intento di cambiamento. Le organizzazioni più strutturate possono così stare tranquille: se i sondaggi dovessero essere confermati, con la vittoria della coalizione di centrodestra, non ci sarebbe alcuna azione per favorire un’apertura al mercato e limitare le rendite di posizione.
Eppure l'intervento, stando alle stime dell’Ocse formulate nel 2020, potrebbe incidere sul Pil fino a un aumento del tre per cento. Numeri che non sembrano interessare all’alleanza Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, in spregio addirittura alle richieste dell’Unione europea.
Per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), Bruxelles chiede la promozione della concorrenza e una legge del 2009 prevede che ogni anno venga approvato un disegno di legge ad hoc. Ma sul tema, come è emerso nei mesi scorsi, le resistenze politiche sono molteplici.
Concorrenza sleale
Armi, taxi e balneari: le lobby a sostegno di Meloni
Nel programma del partito di Giorgia Meloni, la parola concorrenza compare per ben cinque volte: in quattro casi, l’80 per cento, è affiancata dall’aggettivo «sleale». Avviene quando si parla dell’elusione fiscale e dell’abusivismo commerciale, ma anche dell’Italian sounding, la pratica con cui prodotti stranieri vengono associati a quelli italiani attraverso una denominazione simile, e quindi dei paradisi fiscali. Tutte situazioni che, senza alcun dubbio, rappresentano casi di concorrenza sleale. Il punto è che non c’è una visione diversa, positiva, salvo in un’occasione, che si manifesta sul capitolo delle infrastrutture, proposto da Fratelli d’Italia. La minima inversione di tendenza arriva sul riferimento alle «infrastrutture strategiche nazionali».
Bisogna, secondo quanto è riportato nel documento, «garantire la proprietà pubblica delle reti sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni». Ma resta l’unico passaggio in cui affiora un’accezione propositiva della rimozione delle barriere all’ingresso del mercato. Per il resto è tutto arroccamento, difesa dalle minacce. E diventa impossibile rintracciare una sola volta la parola «liberalizzazione». C’è la promessa di superare «i vincoli strutturali che limitano la crescita economica e liberare le forze produttive dell’Italia». Messa così, le lobby possono brindare.
Concordia Lega - FdI
Sulla stessa falsariga si muove la Lega, che spesso ricorre alla parola concorrenza collegandola a un senso negativo. Nel programma leghista il reddito di cittadinanza viene etichettato come «una forma di concorrenza sleale nei confronti dei nostri ragazzi». E ancora: il partito di Matteo Salvini vuole «prevedere strumenti moderni di contrasto alla criminalità organizzata a tutela della concorrenza, del libero mercato» e si impegna per la «valorizzazione del pescato italiano, che subisce ogni giorno una concorrenza spietata e sleale del prodotto estero».
Anche qui, insomma, è tutto un gioco difensivo da pericoli esterni. Come per il partito di Meloni c’è poi il generico impegno di promuovere un sistema concorrenziale nel settore dell’energia. L’unica vera differenza con FdI riguarda il processo di liberalizzazione «contro le politiche stataliste» relative alla «valorizzazione del patrimonio dei beni culturali». Nella fattispecie sembra più una volontà di avere mani libere su un determinato settore, che una volontà di liberare le energie del paese dalla presa delle lobby.
Rivoluzione liberale mancata
Del resto anche Forza Italia ha messo da parte qualsiasi battaglia sull’apertura al mercato, sulla facilitazione di fare impresa contro le resistenze corporative. Nelle 36 pagine di programma non è mai presente la parola concorrenza, né viene illustrato qualche progetto liberalizzatore. Il partito di Silvio Berlusconi si limita a promettere la «promozione e rilancio dell’artigianato e dell’impresa come prospettiva lavorativa per le nuove generazioni» e il supporto alle start-up «anche attraverso strumenti di finanza innovativa». Così la rivoluzione liberale, vagheggiata da Berlusconi fin dalla discesa in campo nel 1994, è stata definitivamente archiviata, di fronte a una mancata azione di erosione delle rendite di posizione. Resta, quindi, il solito slogan «meno tasse», ripetuto pure in questa campagna elettorale.
Nel derby tra liberali, quindi principalmente tra terzo polo e Forza Italia, esce vincitrice la coalizione Azione - Italia viva, che pare un po’ più attenta al tema del superamento dello status quo. Nel programma c’è l’impegno di «approvare ogni anno una legge sulla concorrenza» per rendere «l’economia meno gravata da barriere all’ingresso». Dal punto di vista dei contenuti, tuttavia, non vengono indicati i settori interessati dal potenziale intervento. Carlo Calenda e Matteo Renzi si limitano a chiedere l’attuazione di quanto avviato dal governo Draghi sui taxi e balneari, e di mettere a gara la gestione dei servizi pubblici locali.
© Riproduzione riservata