Costretti a deliberare su un atto che non potevano conoscere perché secretato, alcuni parlamentari hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale. Con un’ordinanza la Consulta ha stabilito a sorpresa che non è necessario che i parlamentari siano consapevoli di ciò che votano
- Alla fine dell’estate di un anno fa Camera e Senato hanno approvato una norma che riguardava il passaggio da Alitalia a Ita Airways nella quale si faceva riferimento a decisioni della Commissione europea che erano state secretate dal governo.
- Il senatore Gregorio De Falco, il deputato Stefano Fassina e altri hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale sostenendo che quel modo di procedere ha menomato il diritto di ogni singolo parlamentare di conoscere prima di deliberare.
- La Corte costituzionale ha emesso un’ordinanza (redattore il giudice Filippo Patroni Griffi) in cui a sorpresa viene stabilito il principio che se il diritto di conoscere è leso, non è il singolo parlamentare che può ricorrere, ma solo l’assemblea.
Approvereste a scatola chiusa una delibera condominiale che tratta un argomento di cui è a conoscenza solo l’amministratore? Domanda retorica e risposta obbligata: no di certo, non è una bella idea dire sì o no a una faccenda che non si conosce.
Questa regola di banale buonsenso non vale per i parlamentari della Repubblica italiana. Alla fine dell’estate di un anno fa deputati e senatori sono stati chiamati a dare il loro voto a un articolo di un decreto legge che faceva riferimento a un documento dell’Unione europea che era stato secretato, il cui contenuto era cioè noto solo ad alcune persone all’interno del governo, ma sconosciuto per il parlamento.
Chiamata in causa per stabilire se ciò era lecito, la Corte costituzionale ha stabilito a sorpresa che non c’è niente di male, si può fare.
Il decreto in questione era uno dei soliti decretoni (il 121 del 10 settembre 2021) che trattava di infrastrutture e trasporti e in cui come in una salsiccia era stato insaccato un po’ di tutto.
In questa congerie c’era anche un articolo, il 7, che agevolava la cessione di beni, flotta compresa, da Alitalia a Ita Airways e spianava la strada al passaggio da una compagnia all’altra ritenendolo coerente con le «decisioni della Commissione europea».
Decisioni che, però, nessuno dei parlamentari poteva conoscere, neanche quelli che ne avevano fatto esplicita richiesta, perché su tutta la documentazione il governo aveva apposto il segreto.
La lettera di Fico
Deputati e senatori hanno approvato ugualmente, anche perché il governo aveva chiesto la fiducia sull’intero decreto e per i parlamentari della maggioranza sarebbe stato complicato e politicamente rischioso votare no.
Alcuni parlamentari hanno però espresso voto negativo o si sono astenuti mettendo sotto accusa il metodo adottato che li stava privando del diritto-dovere di conoscere prima di deliberare.
Raccogliendo le proteste e dando loro una proiezione istituzionale al massimo livello, il presidente della Camera, Roberto Fico, si era rivolto per lettera direttamente al capo del governo, Mario Draghi, sostenendo che non era corretto proibire ai deputati l’accesso agli atti su cui avrebbero dovuto esprimersi.
Alcuni parlamentari, infine, tra cui il senatore ex Cinque stelle Gregorio De Falco, e il deputato Stefano Fassina di Liberi e uguali, si erano rivolti alla Corte costituzionale con un ricorso depositato alla fine di gennaio di quest’anno.
In quell’atto i ricorrenti lamentavano «la menomazione delle proprie attribuzioni rappresentate dagli specifici poteri riconosciuti al singolo parlamentare direttamente dalla Costituzione, quale rappresentante della Nazione (articolo 67 della Costituzione) nonché partecipe alla funzione legislativa delle Camere (articoli 71 e 72 della Costituzione)».
De Falco, Fassina e gli altri hanno fatto presente ai giudici della Corte suprema che l’atto della Commissione europea cui faceva riferimento l’articolo 7 del decreto è stato reso pubblico solo in una data successiva a quella delle votazioni in parlamento e che in precedenza l’unica fonte di informazione accessibile sull’argomento era un comunicato stampa della stessa Commissione.
Che è un documento interessante magari per i giornali e le televisioni, ma che per sua natura rappresenta una sintesi spesso estrema e non può di certo essere considerato un punto di riferimento valido ed esaustivo per un parlamentare che deve essere posto nella condizione di conoscere gli atti completi per poi deliberare con un voto.
Conta l’assemblea
La Corte costituzionale si è espressa con un’ordinanza depositata il 16 giugno redatta dal giudice Filippo Patroni Griffi, già ministro della Funzione pubblica nel governo di Mario Monti.
E ha stabilito che, a differenza di qualsiasi condomino un po’ avveduto, i parlamentari possono votare con la benda sugli occhi, senza poter sapere che cosa stanno deliberando con esattezza.
Il punto saliente della lunga ordinanza della Corte costituzionale è questo: «Eventualmente di fronte alla condotta omissiva del governo, titolare della sfera di attribuzioni costituzionali che si considerano violate è ciascuna Camera e, conseguentemente, solo questa ultima è legittimata a sollevare il conflitto in difesa della dedotta lesione, e non il singolo parlamentare… la cui posizione è assorbita da quella della propria Camera di competenza».
Secondo la Corte il diritto ad essere informati sugli atti su cui si vota non è quindi del singolo parlamentare, ma solo dell’assemblea di cui fa parte. E se l’assemblea preferisce votare al buio, va bene così, i singoli parlamentari non possono far altro che adeguarsi.
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