- Chi fosse sceso da Marte, di fronte a ciò che sta succedendo nel Pd si chiederebbe perché mai un partito che non ha perso voti ed è la seconda forza del paese si straccia le vesti al punto da voler/dover mandare all’aria tutto.
-
Il Pd ha rinunciato a vincere perché si è rifiutato di creare una alleanza elettorale anti destra e ha sbagliato clamorosamente campagna elettorale per acciuffare il frontrunner meloniano. Non poteva che puntare ad un buon risultato in crescita, ma ha fallito anche lì.
-
Ma, va spiegato all’ignaro marziano che la questione, in fondo, è un’altra, e risale al peccato originale di questo partito. E cioè essere nato da una fusione a freddo, tale da farne un amalgama mal riuscito di componenti diverse, unite soprattutto da una versione peculiare di patriottismo costituzionale sotto forma di antiberlusconismo.
Chi fosse sceso da Marte, di fronte a ciò che sta succedendo nel Pd si chiederebbe perché mai un partito che non ha perso voti ed è la seconda forza del paese si straccia le vesti al punto da voler/dover mandare all’aria tutto.
Lasciamo da parte gli avvoltoi che volteggiano da sempre attorno alla sinistra nella speranza di ridurla ai minimi termini e farne un ubbidiente e servizievole portatore d’acqua ai potenti di turno.
A questi nemici strutturali se ne associano poi di contingenti, in questa fase: dalla coppia Calenda-Renzi che attende golosa di spolpare i resti del Pd per irrobustirsi (e consumare una attesa vendetta nel caso di Renzi), al M5s di Giuseppe Conte, che vede aprirsi una prateria tra gli ex elettori di sinistra da tempo delusi, frustrati e alla ricerca di un nuovo, credibile attore che li rappresenti.
Agli avversari naturali e ai competitori più vicini il Partito democratico offre oggi il fianco. Come un San Sebastiano, attende solo di essere trafitto.
Un mistero
Eppure il marziano sceso a Roma qualche domanda se la pone. Ad esempio, gli hanno detto che nel 2018 il Pd, dopo essere stato al governo in posizione dominante per quasi tutta la legislatura, perse quasi 7 punti percentuali rispetto alle elezioni precedenti e addirittura più di 20 rispetto alle europee di quattro anni prima.
Eppure, all’indomani di quel disastro epocale nessuno si pose il problema della sopravvivenza del partito, della necessità di rifondarlo, di cambiare nome, di spazzare via tutta la classe dirigente e così via. Invece ora si è scatenato l’inferno. In effetti è un mistero.
A meno che tutti credessero che il Pd sarebbe diventato il primo partito, o la sua mini-coalizione avrebbe sconfitto quella avversaria, o almeno avrebbe confermato il vaticinio divinatorio dei sondaggi che lo davano due-tre punti in più di quanto ha ottenuto.
Allora il marziano si pone un’altra questione: questi obiettivi erano alla portata del Pd? La risposta è semplice. I primi due nemmeno per sogno, il terzo sì.
Nel primo caso il Pd ha rinunciato a vincere perché si è rifiutato di creare una alleanza elettorale anti destra e nel secondo ha sbagliato clamorosamente campagna elettorale per acciuffare il frontrunner meloniano, e quindi non poteva che puntare ad un buon risultato in crescita.
Ma ha fallito anche laddove poteva riuscire: non ha mostrato una tendenza alla crescita elettorale. Tutti i successi alle elezioni regionali e comunali negli ultimi due anni non sono serviti a nulla, e nemmeno che il partito governi tutte le più grandi città ad eccezione di Palermo e Genova. Il Pd è come quella signora degli spettacoli di Dario Fo: da buttare.
La fusione a freddo
Ma, va spiegato all’ignaro marziano che la questione, in fondo, è un’altra, e risale al peccato originale di questo partito.
E cioè essere nato da una fusione a freddo, tale da farne un amalgama mal riuscito di componenti diverse, unite soprattutto da una versione peculiare di patriottismo costituzionale sotto forma di antiberlusconismo.
In effetti sono stati versati fiumi di parole e scritti innumerevoli contributi che mettevano in luce la difficoltà di costruire un tale partito. Tutto già noto e stranoto.
Allora, se il fallimento dell’amalgama era già stato sancito molti anni fa, come mai torna solo ora di attualità? Si potrebbe dire che l’irruzione di Renzi aveva suscitato grandi speranze di una rigenerazione ab ovo attraverso una rottamazione della vecchia classe dirigente e una nuova cultura politica.
E poiché non è stata realizzata né l’una, né tanto meno l’altra, anzi il cambiamento era andato proprio nella direzione sbagliata, il ritorno di Enrico Letta aveva riaperto prospettive di rilancio.
È qui allora il nocciolo della questione: la delusione delle aspettative. Non contano le cifre, i dati bruti, bensì le percezioni: secondo il famoso adagio dei salotti buoni della finanza, i voti non si contano ma si pesano.
E il 19 per cento pesa assai poco in rapporto alle aspettative. Le disillusioni sono le più cocenti delle sconfitte. Di qui il bailamme che, complice la reazione immediata di Letta, è scaturito.
Infine, l’ingenuo marziano, convinto che questo partito è in crisi perché non ha mai creduto in sé – e figurarsi allora se convince gli elettori – si pone un’ultima questione. Chi sarà il perno dell’opposizione al governo più di destra nella storia d’Italia e di tutta l’Europa occidentale?
© Riproduzione riservata