- L’ex Cavaliere fa un passo indietro «per responsabilità nazionale» e blocca il premier a palazzo Chigi Irritazione di Meloni che non può firmare l’elogio del premier. Salvini: ora faremo le nostre proposte.
- Prima del vertice, slittato di due ore, nel pomeriggio l’ex cavaliere tenta un’ultima disperata carta con i suoi ministri e i sottosegretari. Li riunisce e annuncia: «Non ho ancora deciso». E sparisce dallo schermo spiegando di dover fare ancora «un giro di telefonate»
- Ma ora, dice Berlusconi, il centrodestra può procedere su una candidatura condivisa e «con un consenso vasto».. Ma i nomi fatti finora – Casellati, Pera, Moratti – sono invotabili per il Pd.
Rinuncia alla corsa «per responsabilità nazionale», anche se – assicura – aveva «i numeri», continuerà «a servire il paese in altro modo», evitando che sul suo nome «si consumino polemiche o lacerazioni che oggi la nazione non può permettersi». Con toni esageratamente enfatici Silvio Berlusconi fa l’atteso – e scontato – passo indietro. Ritira la sua autocandidatura alla presidenza della Repubblica. Il colpo di teatro è una seconda scelta, ma riesce. Matteo Salvini e Giorgia Meloni gli avevano impedito – non sempre con le buone – la possibilità di fare uno show davanti ai parlamentari lunedì mattina, a ridosso della prima chiama.
Elisabetta Belloni potrebbe essere la candidata del centrodestra
Quindi alla fine Berlusconi non si presenta al vertice a casa sua a Roma, e non si fa vedere neanche dallo schermo. È la fidata Licia Ronzulli, senatrice forzista tendenza Salvini, a leggere il messaggio del gran rifiuto. Che sbarra la strada a Mario Draghi: dice che il premier «deve restare a palazzo Chigi dove sta facendo un ottimo lavoro», e questo fa irritare Giorgia Meloni che non firma la nota congiunta finale ma precisa che non è «un veto a Draghi» al Colle. Ma ora, dice Berlusconi, il centrodestra può procedere su una candidatura condivisa e «con un consenso vasto».
«Non ho ancora deciso»
Prima del vertice, slittato di due ore, nel pomeriggio l’ex cavaliere in realtà aveva tentato un’ultima disperata carta con i suoi ministri e i sottosegretari. Li riunisce e annuncia: «Non ho ancora deciso». E sparisce dallo schermo, come l’imperatore delle galassie di Guerre stellari, spiegando di dover fare ancora «un giro di telefonate». Una scena surreale, che lascia tutti interdetti.
Antonio Tajani, coordinatore di Fi e unico presente alla riunione azzurra non appartenente alla squadra del governo, interroga i ministri: «Secondo voi i numeri per eleggerlo ci sono?». Ma non sono i ministri ad aver curato «l’operazione Scoiattolo». Berlusconi si è affidato a Vittorio Sgarbi, che ha dichiarato il fallimento della missione, e in molti casi ha telefonato lui personalmente ai parlamentari meno «sicuri».
A questo punto Tajani capisce che il buio è troppo pesto per tutti e dà un’indicazione. Che è una doccia fredda per il presidente del Consiglio aspirante della Repubblica: «La linea di Forza Italia è che Draghi non vada al Quirinale, rimanga a palazzo Chigi, dove è inamovibile, e che nel governo non ci debbano essere né rimpasti, né nuovi ingressi».
La strada sbarrata ai rimpasti getta nello sconforto i cespugli del centrodestra. Ma i toni sorprendono più di uno, a palazzo Chigi. Dove un dialogo era iniziato da tempo con Salvini, nei panni sostanziali di rappresentante dell’intera coalizione. E non sulla linea annunciata al vertice.
La storia si ingarbuglia. E si fa scivolosa. E rischiosa, come segnala Carlo Calenda: «Dire no a Draghi al Colle senza rendersi disponibile per un patto di legislatura serio, rischia di portarci a perdere Draghi per entrambe le posizioni. Questo rischio aumenterà se non si sceglierà insieme una candidata/o di altissimo profilo»
Fin qui a muoversi era stato il leader leghista, senza aspettare la decisione di Berlusconi – del resto il ritiro era dato per scontato da giorni – per dimostrare di essere quello «a cui spetta la proposta».
«Un nome non divisivo»
Anche se il segretario del Pd Enrico Letta, che oggi aveva in agenda un incontro con il leghista forse slittato a domani, continua a squadernare i numeri: 419 grandi elettori di centrodestra, 438 di centrosinistra (ma contando Italia viva), e poi c’è il gruppone del misto, in tutto ben 94. Insomma per il segretario Pd «nessuno ha il diritto di prelazione, serve un capo di stato autorevole e non divisivo».
Renzi invece continua a consegnare lo scettro della prima mossa alle destre. Ma insomma, senza il nome di Berlusconi sul tavolo, il confronto può iniziare.
Lo dice anche Giuseppe Conte, che domani vedrà gli alleati giallorossi. Nel pomeriggio di domenica poi il Pd riunirà i suoi grandi elettori per decidere come votare nelle prime chiame. Si fa in salita la strada di una scelta comune del centrosinistra.
Invotabili per il Pd
Tutto sta a capire cosa significa quella che Berlusconi chiama «una candidatura condivisa e con un consenso vasto». Salvini annuncia che il centrodestra farà le sue «proposte»: fin qui sono state Maria Elisabetta Casellati, Letizia Moratti, Marcello Pera. Tre nomi non papabili per i giallorossi (una parte dei Cinque stelle potrebbe convergere sulla presidenza del Senato, ma l’effetto di una divisione sarebbe immediato sul governo).
Anche se c’è anche chi tiene in corsa l’ipotesi di un Mattarella bis. Ma il presidente uscente ha messo una lontananza eloquente, e anche fisica, dagli eventi: è andato a casa, in Sicilia, da dove seguirà lo spoglio. E il suo portavoce Giovanno Grasso posta su Twitter una foto con gli scatoloni pronti al trasloco: «Fine settimana di lavori pesanti», scrive. Più chiaro di così. Del resto la stanza che fu del presidente Schifani, la più bella di tutto palazzo Giustiniani, quella con l’affaccio sul Pantheon, è stata ritinteggiata ed è pronta ad accogliere l’emerito.
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