- La guerra della Russia ha esteso di un anno il mandato del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg per un anno, fino al 30 settembre 2023, ma le grandi manovre per la sua successione sono in corso: l’Italia coltiva da tempo ambizioni, ha un solo vero nome spendibile, Mario Draghi.
- Ma non è affatto scontato che l’attuale contesto diplomatico premi l’Italia.
- Tra i tanti punti problematici del rapporto tra Italia e Nato c’è che per Roma la priorità della Nato deve essere garantire il Mediterraneo e non la Russia.
La guerra della Russia ha esteso di un anno il mandato del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg per un anno, fino al 30 settembre 2023, ma le grandi manovre per la sua successione sono in corso: l’Italia coltiva da tempo ambizioni, ha un solo vero nome spendibile, Mario Draghi. Ma non è affatto scontato che l’attuale contesto diplomatico premi l’Italia, anche se in molti hanno coltivato ambizioni negli ultimi anni, incluso Matteo Renzi, ora poco spendibile per i suoi rapporti con l’Arabia saudita di Mohammed bin Salman.
Tra i tanti punti problematici del rapporto tra Italia e Nato in questa fase storica c’è una differenza di priorità strategiche. Nel 1980 l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo esplicita una posizione che non è mai cambiata: per Roma la priorità della Nato deve essere garantire la sicurezza nell’area mediterranea, in particolare nel Nord Africa, ma anche nel Medio Oriente.
Guardando a Sud
Soprattutto negli anni dopo la fine della Guerra fredda, l’Italia ha dimostrato piena adesione alle missioni Nato anche contestate (tipo Enduring Freedom in Afghanistan) perché doveva tenere saldo il rapporto tra Nato e aree di interesse strategico.
Il governo italiano non ha fatto mancare il sostegno neppure alle operazioni militari aree nel 2011 in Libia, che hanno rovesciato il regime di Muhammar Gheddafi, perché l’alternativa sarebbe stato lasciare l’influenza su quell’area soltanto alla Francia. Tutto questo è sempre parso abbastanza legittimo, anche se condito con una certa indulgenza verso la Russia di Vladimir Putin, ma dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio diventa anacronistico.
Ancora alla vigilia della guerra, i diplomatici italiani spingevano per ridurre l’attenzione della Nato all’Est dell’Europa per concentrarsi di più su un Mediterraneo sempre più instabile.
Grazie a questa continua pressione, nel 2017 l’Italia ha ottenuto l’apertura a Napoli del Nato Strategic Direction South Hub, un centro dedicato proprio al Nord Africa, al Sahel e al Medio Oriente, per raccogliere informazioni e coordinare le attività, al netto di quelle militari.
Un successo diplomatico che ora si ritorce contro le ambizioni dell’Italia per la guida dell’Alleanza: siamo quelli del Sud.
A Madrid, il 29 e il 30 giugno, la Nato si riunisce per adottare il suo nuovo Strategic Concept, l’equivalente strategico di un piano industriale per una grande azienda: obiettivi, missione, priorità. Dopo il rapido avvio del processo di adesione di Finlandia e Svezia e con Putin come minaccia globale, è chiaro che sarà il fronte russo quello cruciale, ma anche il rapporto con l’Unione europea. E questo genere di attitudine penalizza ogni ambizione italiana.
Federica Mogherini, che è donna e ha ricoperto il ruolo di Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue tra 2014 e 2019, avrebbe il curriculum adatto per puntare alla guida della Nato. Ma anche lei è stata travolta dalla storia: da commissaria europea, il suo approccio alla costruzione della difesa comune è sempre stato quello di spingere la Ue a diventare «responsabile della propria sicurezza». Cioè a far a mano della Nato.
Col senno di poi, per l’incolumità degli europei sarebbe stato molto meglio investire quell’energia per emanciparsi dal principale rivale strategico – la Russia di Vladimir Putin e il suo gas – invece che dal principale alleato (la Nato e dunque gli Stati Uniti).
Mogherini pare dunque fuori sincrono rispetto al clima attuale che è più coerente con la nomina di un europeo dell’Est con chiare credenziali anti-russe, piuttosto che di un italiano (o italiana) meno netto.
Forse un’eccezione si potrebbe fare soltanto per Mario Draghi: la guida della Nato non può andare a un americano (perché è già troppo “atlantica” ed emanazione degli Stati Uniti), neppure può finire a un tedesco, visto che la Germania è il paese considerato da tutti più responsabile della penetrazione di Putin in Europa.
Pro e contro Draghi
Mario Draghi certo ha il curriculum internazionale per agire da punto di riferimento di Washington con piena credibilità nel contesto Ue, anche se la Nato di solito non ha mai figure con un profilo così definito come quello del premier ed ex presidente Bce.
Il segretario generale, infatti, non ha un potere decisionale autonomo, interpreta la linea decisa dai rappresentanti dei paesi riuniti nel North Atlantic Council. Il segretario generale presiede il Consiglio, ma le politiche decise sono «espressione della volontà collettiva di tutti i paesi membri dell’alleanza», come si legge sul sito dell’organizzazione, anche perché sono prese all’unanimità. Che è come dire che ogni paese ha diritto di veto.
Draghi conosce questi meccanismi, ha gestito il consiglio direttivo della Bce durante l’eurocrisi, aggirando la sistematica opposizione della Bundesbank di Jens Weidmann, quindi potrebbe anche essere adatto.
Ma prima che europeo, Draghi è italiano. E questo non lo aiuta, così come non giocano a suo favore i ripetuti passi falsi nella gestione della crisi ucraina: la visita a Mosca fissata (e poi saltata) per il giorno dell’invasione, i continui cambi di linea sul pagamento del gas in rubli secondo le modalità indicate da Putin, il piano di pace italiano bruciato sui giornali, la proposta inascoltata di fissare un tetto al prezzo del gas dal lato dei compratori.
C’è però ancora qualche mese, e forse il rinnovato attivismo diplomatico dell’Italia potrebbe cambiare il clima. Stoltenberg, da parte sua, ha già un posto prenotato alla guida della Banca centrale della Norvegia: la guerra all’inflazione gli sembrerà quasi una vacanza dopo quella a Putin.
© Riproduzione riservata