- Tra il rimprovero di Draghi sui vaccini, la scivolata del deputato Claudio Borghi contro i cronisti che gli chiedevano se era vaccinato, l’omicidio di Voghera, l’annuncio del suo amico Orbán di chiamare un referendum sulla legge anti Lgbt, è stata una settimana nera per il leader del Carroccio.
- È una tela di Penelope quella dei leghisti di governo: di giorno loro tessono un posizionamento moderato e popolare con Draghi, di sera Salvini disfa tutto. E riporta le lancette all’agosto del 2019. I giorni del Papeete.
- Eppure formalmente lo difendono, per allontanare il sospetto – e l’eco – dei molti malumori degli ultimi giorni contro il ritorno all’antico tic negazionista.
Aveva detto che si sarebbe vaccinato in un generico giorno di agosto, e invece ieri su Instagram ha postato la sua foto mentre prende un caffè e sul tavolo ha il «Qr code» del certificato di avvenuta vaccinazione. Nell’inquadratura il foglio è laterale, appoggiato con finta casualità; però il codice è perfettamente visibile. Ma quel foglio è la notizia, anche data con un po’ di imbarazzo: Salvini si è rassegnato alla prima dose.
Non lo annuncia lui, lo fanno sapere fonti interne alla Lega: ieri mattina è andato al centro vaccinale della Fabbrica del Vapore di Milano. È il primo effetto, immediato, della sberla presidenziale, quella che Mario Draghi ha tirato alla conferenza stampa di giovedì, inequivocabilmente diretta al suo indirizzo: «L’appello a non vaccinarsi è l’appello a morire». Ieri Salvini si è dichiarato «sorpreso» dalle parole di Draghi, «io chiedo solo prudenza». In realtà è colpito e affondato. Dall’interno della Lega i malumori del “partito di governo” per le parole del leader contro le vaccinazioni degli under 40 avevano creato imbarazzo.
Ora Salvini fa un passo indietro, provando a dissimulare: «Salute, lavoro e libertà devono stare insieme», scrive su Twitter, «a volte nei palazzi della politica combattiamo da soli, ma il sostegno di milioni di Italiani ci regala forza e coraggio. Vi si vuole bene amici». Più tardi si è dovuto arrendere ai cronisti: il vaccino è stata una sua «libera scelta ma non ho diritto a imporre niente a nessuno». Nessun commento alle parole di Draghi, e l’ammissione di non averlo sentito nelle ultime ore.
La settimana nera
Il duro rimprovero di Draghi è la chiusura di una settimana nera, per il leader leghista. Prima la scivolata del deputato Claudio Borghi contro i cronisti che gli chiedevano se era vaccinato: «Perché questi eroi la prossima volta che intervistano un Lgbt non gli chiedono se è sieropositivo?». Non precisamente un utile biglietto da visita per il leader che sostiene di voler trattare sulla legge contro l’omofobia.
Poi l’annuncio del presidente ungherese Viktor Orbán di chiamare un referendum sulla legge anti Lgbt, che rende sempre più evidente le contraddizioni del suo amico italiano. Che lo difende: «Ritengo che ogni stato sia libero di decidere sulla propria organizzazione scolastica e universitaria, sull’organizzazione della giustizia». Salvini è l’amico italiano di Orbán. E di Vladimir Putin, per il Ppe. Che fa circolare una card con la faccia dell’autocrate russo nei panni di un puparo che fa muovere Salvini, la leader del Rassemblement national francesce Marine Le Pen, e il presidente polacco Aleksander Kaczyński: «The coalition of hate», la coalizione dell’odio.
La pistola fumante
Infine, ma è stato il colpo finale, l’omicidio di Youns El Bossettaoui a Voghera. Salvini ha subito preso le difese dell’assessore Massimo Adriatici, colpevole presunto ma comunque un giustiziere fai da te un po’ imbarazzante anche per un leghista. Uno che dichiara di andare il giro con il colpo sempre in canna.
Senza aspettare di sapere nulla della dinamica dell’omicidio, il leader leghista ha pensato di cavalcare la tesi della difesa «sempre legittima», «Se si dispone di un regolare porto d’armi è giusto avere sempre con sé la pistola». È una tela di Penelope quella dei leghisti di governo: di giorno loro tessono un posizionamento moderato e popolare con Draghi, di sera Salvini disfa tutto. E riporta le lancette al febbraio 2018, all’epoca del tiro all’immigrato di Luca Traini, l’ex candidato leghista alle comunali. O peggio – secondo questa scala di valori – all’agosto del 2019. I giorni del Papeete.
Lo spettro del Papeete
Sul green pass in realtà la base è spaccata, a guardare i social. Una parte chiassosa dei follower non ha preso bene il sì pronunciato dai ministri leghisti. I commenti su Facebook dopo la riunione del Consiglio dei ministri grondano delusione: «Se accettate il green pass perderete una valanga di voti», «Fermate questa follia», «Se passa il green pass io cancello la mia tessera leghista». «Dopo breve giro su pagine salviniane. Lega al 7 per cento...forse».
Il sette per cento è lontano. Ma il calo di consenso ormai è la tendenza costante nei sondaggi dei diversi istituti. Ieri una rilevazione di Ixè piazzava una terna di partiti ammucchiati nel giro di pochi decimali. Per un soffio la Lega è davanti agli altri due con il 19,9 per cento. Il Pd è al 19,2 e Fdi al 19. Per resistere al primo posto negli ultimi due mesi Salvini ha praticato una strategia dell’”acchiappanza”, di voti e presenze mediatiche: il tour nelle città che vanno alle amministrative si incrocia con le comparsate ai banchetti dei radicali per promuovere le firme sui referendum sulla giustizia.
Ma le contraddizioni bussano alla porta. Oggi in tutta Italia ci saranno manifestazioni «No green pass». Il Worldwide Demonstration Rally, l’evento internazionale «per la libertà» era programmato da tempo, ma dopo l’approvazione del decreto diventa in sostanza il raduno dei negazionisti. L’epicentro sarà Ostia, presidi annunciati a Roma stessa, a Genova, Firenze, Torino, Milano, Napoli, Bologna, Padova, Bergamo, Parma, Varese, Pordenone, Ravenna, Forlì, Lodi e Como.
Leghisti in piazza
Oggi ai presidi non dovrebbero esserci esponenti leghisti. Riccardo Molinari, il presidente del gruppo alla Camera, ammette qualche partecipazione «a titolo personale» ma a una manifestazioni sorella, contro il green pass, il prossimo 28 luglio. Per oggi Salvini deve decidere se salutare la protesta o restare defilato. È il tormento dei leghisti di governo, che temono la sindrome del Papeete: e cioè quella corda ingovernabile del Salvini di lotta, che lo porta inevitabilmente a deragliare.
Formalmente lo difendono, per allontanare il sospetto – e l’eco – dei molti malumori degli ultimi giorni contro il ritorno all’antico tic negazionista. Draghi è stato inflessibile. I ministri leghisti non avevano neanche bisogno di allinearsi. E però nel pomeriggio di ieri hanno dovuto dare la prova d’amore al leader, imbufalito per il trattamento ricevuto da palazzo Chigi, preoccupato per la quarta ondata. «Riteniamo ingenerose le critiche alla Lega e al nostro leader sui vaccini mosse in maniera strumentale da una parte della stampa». Firmato i ministri Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia. Difende Salvini un altro leghista moderato doc, Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli: «Salvini non ha mai detto non vaccinatevi, ha detto concentriamoci sulle categorie fragili».
Intanto però lui ha scandito un caldo invito a vaccinarsi ai suoi cittadini, tutti, non solo gli over 40, come ha detto Salvini. Dalla Lega si corre ai ripari: viene spiegato anche che lasciare il governo è un’ipotesi lunare, e che grazie ai ministri il green pass non è richiesto per i trasporti o per lavorare. Ma «ferme restando le doverose e necessarie cautele», per la Lega restano incomprensibili alcune scelte come la mancata riapertura delle discoteche. E sono preoccupanti «le grida di dolore di troppi ristoratori e operatori turistici», che ricevono disdette per non parlare di intere famiglie che non riusciranno ad adeguarsi per tempo ai nuovi criteri.
Il match della maggioranza
C’è poco da arzigogolare: la Lega ha perso il match interno alla maggioranza. Come anche i Cinque stelle, a cui Draghi ha apparecchiato il voto di fiducia sulla riforma Cartabia, bloccata da 900 emendamenti ostruzionistici alla Camera. Il segretario del Pd Enrico Letta, bersaglio polemico preferito di Salvini, può finalmente prendersi una rivincita. E parlare delle parole di Draghi (quelle sull’«appello a morire») come di «un monito alto, in linea con quanto come Pd sosteniamo costantemente, anche a rischio di essere impopolari: prima di tutto la salute, anche perché senza la salute non ci sono le riaperture». Quella del premier, viene spiegato, «è una risposta limpida e inappellabile a Salvini che non a caso ha corretto il tiro e parlato di minorenni, quando solo pochi giorni fa aveva detto che è per gli under 40 che il vaccino non serve. La verità è che questa destra gioca a dadi con questioni delicatissime, si conferma irresponsabile».
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