Il caso dei verbali del Cts mostra che le norme sul diritto di conoscere gli atti sono opache. Sei lezioni e una domanda sul cortocircuito del Foia
- La Fondazione Einaudi ha chiesto di avere accesso ai verbali del comitato tecnico scientifico sulla base dei quali il governo Conte ha adottato i provvedimenti restrittivi delle libertà personali durante la fase acuta della pandemia.
- La Protezione civile prima e la presidenza del consiglio poi hanno respinto la richiesta e costretto la Fondazione Einaudi ad andare in tribunale: l’argomentazione giuridica riguardava la natura stessa dei decreti della presidenza del consiglio, i famosi Dpcm usati da Conte nell’emergenza.
- Il Consiglio di stato ha stabilito che il diritto dei cittadini ad avere accesso ai documenti della pubblica amministrazione, garantito dalla legge Foia, non può essere limitato a discrezione della pubblica amministrazione stessa e ha bocciato l’interpretazione dei Dpcm come strumenti di legge. La trasparenza è arrivata, ma soltanto parziale: perché il governo non pubblica tutti i verbali del Cts?
E trasparenza fu. Nella serata del 5 agosto il governo ha deciso di rendere pubblici i verbali del Comitato tecnico scientifico (Cts), istituto il 5 febbraio scorso con decreto del capo dipartimento della protezione civile al fine, tra gli altri, di garantire “supporto tecnico” alle attività per il contrasto dell’epidemia di Covid-19.
La vicenda è cominciata nei mesi scorsi con un’istanza di accesso civico generalizzato da parte della Fondazione Luigi Einaudi, ai sensi del cosiddetto decreto Trasparenza (Foia, Freedom of Information Act), riguardante cinque verbali citati nelle premesse di decreti del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm). L’esigenza di trasparenza derivava dal fatto che all’interno di Dpcm, ma anche dei decreti legge del governo che ne consentivano l’emanazione, si richiamano criteri di “proporzionalità” e “adeguatezza” delle misure adottate rispetto alle condizioni epidemiologiche del momento. Anche nelle conferenze stampa, Giuseppe Conte citava le valutazioni del Cts come base dei propri provvedimenti. Pertanto, per verificare se le scelte del vertice dell’esecutivo per contenere l’epidemia, con limitazioni di libertà e diritti tutelati costituzionalmente, fossero commisurate – “adeguate” e “proporzionate” - all’emergenza in atto poteva essere utile conoscere le valutazioni tecnico-scientifiche che ne costituivano presupposto e motivazione.
Tuttavia, a inizio maggio, la Protezione civile ha negato l’accesso agli atti richiesti, citando una norma del Foia che prevede eccezioni alla trasparenza, escludendola per “l’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali”; nonché un’altra disposizione in tema di accesso a documenti di commissioni, organi collegiali e gruppi di studio, qualora finalizzati all’adozione di atti normativi o amministrativi generali. L’amministrazione si è riservata di valutare se pubblicare i verbali alla fine dello stato di emergenza. Prima di proseguire, vale la pena soffermarsi sul cardine della vicenda giudiziaria: la qualificazione giuridica dei Dpcm, da cui le parti hanno fatto dipendere l’applicabilità o meno di una delle eccezioni alla trasparenza Foia.
Secondo la Protezione civile, si tratta di “atti normativi” o “atti amministrativi generali” e, in conformità a quanto sancito dal Foia, i documenti che ne sono il presupposto rientrerebbero fra quelli per cui la trasparenza è esclusa (eccezioni assolute), senza lasciare all’amministrazione nemmeno lo spazio per bilanciare l’interesse alla trasparenza stessa con eventuali interessi diversi (eccezioni relative).
Secondo l’altra parte, invece, tale qualificazione dei Dpcm è errata, e anche per questo ha impugnato dinanzi al tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio il rifiuto di accesso agli atti. Secondo i ricorrenti, i Dpcm adottati per fronteggiare l’emergenza epidemiologica, basati sui pareri del Cts, non sono atti “normativi” né “amministrativi generali”, ma “ordinanze contingibili e urgenti”, perché emanati in una situazione di straordinaria necessità e urgenza, per periodi predeterminati e senza innovare stabilmente l’ordinamento giuridico con un nuovo regime di libertà e diritti. L’impostazione dei ricorrenti, cioè la definizione dei Dpcm come “ordinanze”, è stata volta a neutralizzare l’eccezione alla trasparenza: se i verbali del Cts sono preparatori di “ordinanze”, e non di atti “normativi” o “amministrativi generali”, allora non si rientra nell’esclusione dell’accesso agli atti Foia.
Il 22 luglio il Tar ha accolto la tesi dei ricorrenti, rilevando che i Dpcm hanno “caratteristiche assonanti con le ordinanze contingibili e urgenti”, mentre sono privi “del requisito dell’astrattezza e della capacità di innovare l’ordinamento giuridico” propria degli “atti normativi”; e nemmeno sono “atti amministrativi generali”, ai quali li accomuna solo la caratteristica della generalità dei destinatari. Il Tar ha così escluso la ricorrenza dell’eccezione alla trasparenza sancita dal Foia; poi ha sottolineato come le argomentazioni opposte dall’amministrazione alla richiesta di accesso ai verbali del Cts fossero soltanto formali, in quanto prive di “ragioni sostanziali attinenti ad esigenze oggettive di segretezza o comunque di riservatezza degli stessi al fine di tutelare differenti e prevalenti interessi pubblici o privati”.
Poiché il Foia “riconosce, ormai, la più ampia trasparenza alla conoscibilità anche di tutti gli atti presupposti all’adozione di atti caratterizzati da un ben minore impatto sociale, a maggior ragione deve essere consentito l’accesso ad atti, come i verbali in esame, che si connotano per un particolare impatto sociale, sui territori e sulla collettività”.
Il 28 luglio, la presidenza del Consiglio dei ministri, tramite l’avvocatura generale dello stato, ha presentato appello al Consiglio di stato avverso la decisione del Tar, con istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata. L’avvocatura è tornata sulla natura giuridica dei Dpcm, ribadendo che essi “non hanno né la forma, né la sostanza delle ordinanze contingibili e urgenti”, ma sarebbero “atti amministrativi generali, frutto di attività ampiamente discrezionale ed espressione di scelte politiche da parte del governo che trovano la propria fonte giuridica nella delega espressamente conferita dal legislatore all’esecutivo”, cioè nei decreti legge succedutisi dal mese di febbraio: ciò giustificherebbe il fatto che i loro atti preparatori rientrino nella citata eccezione alla trasparenza Foia.
L’avvocatura ha sostenuto che le ragioni sostanziali del diniego di trasparenza erano da rinvenire, per esempio, nell’“allarme sociale” e nelle “problematiche, in alcuni casi anche di ordine pubblico, verificatesi nell’imminenza della decisione di creare una ‘zona rossa’ in alcune regioni del nord Italia, a seguito della diffusione di notizie in ordine alle valutazioni effettuate dal Comitato”. A sostegno del danno che sarebbe potuto derivare dalla pubblicazione dei verbali, l’avvocatura ha aggiunto che, data la novità del Covid-19, “ogni valutazione medico-tecnica al riguardo è stata, ed è, connotata da ampi margini di opinabilità e rischio”; peraltro, potrebbero esservi “altre – probabilissime ed imminenti – prosecuzioni dello stato emergenziale e dei relativi provvedimenti a tutela della salute pubblica e della vita dei cittadini, sì che la disclosure sui verbali creerebbe un pregiudizio attuale”.
Il 31 luglio il presidente del Consiglio di stato ha sospeso l’esecuzione della sentenza del Tar, rimandando la decisione sulla pubblicazione dei verbali al 10 settembre, in camera di consiglio, in contraddittorio tra le parti.
Circa la qualificazione giuridica dei Dpcm – da cui, come visto, dipende il ricorrere o meno nell’eccezione Foia alla trasparenza dei verbali che ne sono il presupposto – secondo il Consiglio di stato, i decreti del Presidente del consiglio non possono essere considerati “atti amministrativi generali” in quanto “con tale categoria di atti” non si può “incidere, in modo tanto significativo, su diritti fondamentali della persona”, com’è invece avvenuto durante il lockdown; questo potrebbero farlo “ordinanze contingibili e urgenti che, però, nella legislazione anti-Covid, sono solo quegli atti (ad esempio del ministero della salute) che in tal modo la legge qualifica espressamente”, quindi non i Dpcm.
Tuttavia, sul tema “trasparenza” la pronuncia è stata chiara: i verbali del Cts hanno rappresentato “il presupposto per l’adozione di misure volte a comprimere fortemente i diritti individuali e costituzionalmente garantiti dei cittadini”. “Le valutazioni tecnico-scientifiche si riferiscono a periodi temporali superati e la stessa amministrazione fa comprendere di non ritenere in esse insiti elementi di speciale segretezza”. Gli atti in questione non possono ritenersi sottratti a “trasparenza e conoscibilità da parte dei cittadini, giacché la recente normativa – ribattezzata Freedom of Information Act sul modello americano – prevede come regola l’accesso civico”, e le eccezioni alla regola vanno interpretate restrittivamente; pertanto, la trasparenza non può essere affidata “alla facoltà della amministrazione, di valutare l’ostensibilità di tali verbali al termine dello stato di emergenza”.
Il 5 agosto, colpo di scena: il governo ha fornito i pareri del Cts richiesti.
Che cosa insegna la vicenda? Innanzitutto, ha consentito a molti cittadini di venire a conoscenza del fatto che in Italia esiste una legge che, analogamente al Freedom of Information Act americano, è volta a rendere trasparenti le pubbliche amministrazioni nazionali.
Il Foia americano è del 1966 – segue quello ben più antico della Svezia (1766) – e l’Italia è arrivata cinquant’anni dopo, ma ora la legge c’è e ha attribuito a “chiunque”, a qualunque fine e senza necessità di motivazioni, il diritto alla “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni”. L’introduzione del right to know – il diritto alla conoscenza – ha rappresentato per l’ordinamento nazionale una sorta di rivoluzione: si sarebbe dovuta realizzare, finalmente, una pubblica amministrazione trasparente come la “casa di vetro” immaginata dall’onorevole Filippo Turati all’inizio del secolo scorso. E questa è la seconda lezione che si trae dalla vicenda: così non è stato.
Il Foia è una normativa intitolata alla trasparenza, ma basata su un meccanismo che limita la trasparenza stessa. Infatti, le numerose eccezioni a quest’ultima, previste dal Foia e amplificate dalle linee guida dell’autorità anti corruzione, rendono ardua la realizzazione di quella disclosure che la legge dovrebbe assicurare. E nonostante nelle premesse delle citate linee guida si affermi che l’accessibilità è “la regola rispetto alla quale i limiti e le esclusioni rappresentano eccezioni”, il diritto alla conoscenza resta un percorso a ostacoli. Basti pensare che, nel caso in esame, si è dovuti arrivare fino in tribunale per vedersi dichiarata l’accessibilità ad atti che hanno inciso sulle vite di tutti – e in questi anni vi sono stati moltissimi casi di trasparenza negata, o addirittura istanze rimaste senza risposta – con buona pace del diritto alla conoscenza che il Foia dovrebbe garantire a “chiunque”, e non solo a chi abbia risorse per adire le vie giudiziarie.
La terza lezione: basta che un atto sia inserito dalla pubblica amministrazione in una certa categoria giuridica, anziché in un’altra, per sottrarlo alla trasparenza, facendolo rientrare addirittura nelle eccezioni assolute, cioè insuperabili, per le quali non devono nemmeno bilanciarsi interessi diversi (eccezioni relative, come detto): sì che l’amministrazione, con una motivazione formale, fa calare il velo dell’opacità.
Nel testo non definitivo del decreto Foia non era nemmeno prevista la motivazione del rifiuto di trasparenza. All’epoca scrissi – e il mio scritto fu in parte ripreso nel parere del Consiglio di stato sulla bozza del Foia – che, se l’obbligo di motivazione non fosse stato sancito nel testo finale, si sarebbe avuta una legge sulla trasparenza la quale negava di conoscere trasparentemente le ragioni del rifiuto di trasparenza: un paradosso.
La quarta lezione è che l’eccezione Foia la quale nega la trasparenza di documenti preparatori “di atti normativi, amministrativi generali…” - con cui si è rifiutato l’accesso ai verbali del Cts sui quali i Dpcm sono fondati - tende tra l’altro a evitare l’anticipata conoscenza di processi decisionali, e quindi anche di pareri tecnici alla base delle scelte dei decisori.
Questa eccezione fa sì che ai cittadini non sia consentita la partecipazione informata a scelte che incidono sulle loro vite. Ma ciò è in contraddizione con quanto disposto dallo stesso Foia, secondo cui il diritto alla conoscenza è volto proprio a “promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”. Il cortocircuito è palese, e la partecipazione - cui il Foia è finalizzato - resta solo a parole.
La quinta lezione è che aver ricondotto la regolazione dell’emergenza ad atti come i Dpcm - con cui si sono compressi anche libertà e diritti per i quali c’è riserva di legge – anziché a strumenti “ordinariamente” rapidi in casi di necessità e urgenza, come i decreti legge, continua a produrre distorsioni: si è visto come la partita si sia giocata sulla qualificazione giuridica dei Dpcm, per far rientrare o meno i verbali preliminari a essi tra le eccezioni alla trasparenza.
Proprio l’uso (dubbio) di Dpcm per decisioni di forte impatto sulle persone avrebbe dovuto sin dall’inizio indurre Conte a esibire gli atti su cui essi erano fondati: la trasparenza Foia è strumento utile alla verifica dell’effettivo rispetto dei principi costituzionali di legalità ed efficienza dell’amministrazione. Soprattutto quando compie scelte politiche, come per il contrasto al Covid-19, e tanto più se si discosta dalle indicazioni degli esperti di cui si è avvalsa, come pare stia emergendo dai verbali pubblicati.
Sesta lezione: non sarà il momento di rivedere la normativa Foia, rendendo effettivo il “diritto alla conoscenza”? “Conoscere per deliberare”, quindi pure capire perché il decisore politico fa certe imposizioni ai cittadini e se esse sono davvero necessarie, non è solo un modo di dire.
La settima non è una lezione, ma una domanda: una volta determinatosi a essere trasparente, senza attendere la decisione finale del Consiglio di stato, perché il governo non lo è fino in fondo, rendendo pubblici non solo i verbali del Cts richiesti, ma anche tutti gli altri?
La luce è il miglior disinfettante, diceva Louis Brandeis, giudice della Corte suprema americana. In tempo di pandemia vale per tutto.
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