Nella prima metà del Novecento, i “nuovi liberali”, inglesi (Keynes, Beveridge) e americani (Wilson, Roosevelt), sul piano internazionale cercarono di impostare una convivenza fondata sullo stato di diritto e sulla rinuncia al colonialismo, sul piano interno diedero vita al moderno welfare state e teorizzarono, e poi attuarono, l’intervento pubblico: proprio per rafforzare e salvare le società liberal-democratiche.

Il “nuovo liberalismo” (o liberalismo sociale, o liberalismo progressista), e che è cosa ben diversa dal neo liberalismo, era sorto fra Otto e Novecento in contrapposizione al liberalismo classico, per rimediarne ai fallimenti, e si affermerà poi nel mondo occidentale proprio a cavallo della Seconda guerra mondiale, incontrandosi con il pensiero social-democratico.

Con autentico spirito liberale, questi politici, economisti, filosofi non fecero, in fondo, che prendere atto della realtà: per preservare la libertà, occorreva estendere i diritti (e la visione della persona umana) alla dimensione sociale. E bisognava cercare di essere coerenti.

Carlo Rosselli

Detta altrimenti, i nuovi liberali con l’intervento pubblico volevano salvare il liberalismo, volevano mettere le società aperte al riparo dalle minacce mortali del fascismo e del comunismo. Assieme a loro, vi furono i socialisti democratici (e altre culture politiche ancora: i cristiani democratici e sociali, i repubblicani): vi furono cioè coloro che riconoscevano che gli ideali del socialismo si potevano conseguire all’interno della democrazia liberale, e con economie miste in cui fosse lasciato un certo ruolo all’iniziativa privata; dentro cioè quella cornice etica, culturale, politica volta a promuovere i diritti dell’uomo, a partire da quelli civili e politici fino a quelli sociali, economici e culturali.

L’incontro fra le due visioni, fra i liberali progressisti e i socialisti democratici, sarà talmente forte che a quell’epoca si cominciò a parlare, non a caso, di “socialismo liberale” (o di “liberalismo sociale”: fra le due espressioni c’è ancora una distinzione sul piano teorico, molto meno su quello pratico). In Italia, fra chi esplicitamente fa sua questa impostazione troviamo l’antifascista Carlo Rosselli, che al confino a Lipari scrive il saggio Socialismo liberale (1930), in opposizione anche a chi, dal lato comunista, considerava uguaglianza e libertà come antitetiche, e pensava che i diritti sociali dovessero venire prima delle libertà civili e politiche (come era nella Costituzione sovietica). Questi diritti invece legano insieme, si tengono, nella teoria e nella prassi, gli uni con gli altri. “Correttamente” inteso – libero, democratico, senza dogmi – il socialismo secondo Rosselli è lo sviluppo logico del liberalismo: il suo erede storico.

Un amalgama riuscito

Dopo la Seconda guerra mondiale, nelle società democratiche più avanzate dell’occidente, questo incontro fra liberalismo progressista e socialismo democratico, questo amalgama fra le due correnti di pensiero, riesce a diventare, grosso modo, l’opinione dominante (lo riconosce perfino, nel campo liberale, chi a questa sintesi non appartiene, come Luigi Einaudi).

È su queste basi che poggia, infatti, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nel 1948 (dove accanto ai diritti civili e politici troviamo enunciati nel dettaglio anche i diritti sociali), e anche la nostra Costituzione, non a caso contemporanea.

A uno sguardo di lungo periodo, i socialisti liberali, o nuovi liberali o liberali progressisti, o social-democratici (chiamiamoli come vogliamo), avevano ragione. Qui veniamo a un dato di fatto fondamentale. I diritti civili e i diritti sociali sono effettivamente andati insieme, nella storia dell’occidente. Non si sono contrapposti!

Al contrario. Quando dopo la Seconda guerra mondiale si è affermato, un po’ in tutto il campo occidentale, anche per la competizione con il mondo comunista, lo stato sociale, con un pervasivo intervento pubblico, ma all’interno delle regole poste dalle democrazie liberali, le libertà civili e politiche non sono diminuite. Anzi, sono aumentate.

La previsione di Friedrich von Hayek, in The Road to Serfdom (1944), secondo cui l’interventismo statale era appunto «la via della schiavitù», si è rivelata sbagliata. E crollando questa previsione, attenzione, crolla tutto l’edificio teorico del neo liberalismo come dottrina politica.

Gli anni Settanta

L’Inghilterra dei Beatles e dei Rolling Stones, l’Inghilterra di una straordinaria creatività culturale e di una incipiente rivoluzione dei costumi che avrebbe cambiato il mondo intero, portando alla liberazione dell’amore, era certo un paese libero; e si caratterizzava per una estesa mano pubblica in tutti i settori dell’economia, per una tassazione molto più progressiva di oggi e per un welfare capillare.

O forse la Svezia non era un paese libero, nello stesso periodo? O la Germania Ovest, o l’Olanda? O gli Stati Uniti di Kennedy e Johnson, di Martin Luther King, di Bob Dylan e Joan Baez?

Anche in Italia, la stagione di maggiore avanzamento nelle libertà civili, gli anni Settanta (il divorzio, la riforma del diritto di famiglia con la parità fra donna e uomo, l’aborto legale), è anche quella di maggiore estensione dei diritti sociali e di riduzione delle disuguaglianze (fu garantito ad esempio il diritto universale alla salute, peraltro dalla prima ministra donna della storia italiana, Tina Anselmi).

Del resto è logico, a pensarci: per essere libere di decidere della propria vita, ad esempio, le donne devono avere anche i mezzi economici per poterlo fare, cioè un lavoro e un giusto salario. E non solo: per poter scegliere il mio cammino nel mondo, io devo avere garantita una buona istruzione. E devo avere un sussidio di disoccupazione, e una buonuscita, se voglio cambiare lavoro e sperare di trovarne uno a me più adatto (in cui magari sono anche più produttivo).

Detta altrimenti: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e dell’uomo sulla donna, e della donna sulla donna) rappresenta la negazione della libertà. Lo affermavano i socialisti, e avevano ragione. Fin quando ci sarà chi, troppo povero, è costretto ad accettare qualsiasi lavoro e non ha i mezzi per sperare di emanciparsi dalla sua condizione, di che libertà parliamo? Parliamo della libertà di alcuni, di una minoranza: parliamo quindi non del diritto alla libertà, ma del privilegio della libertà. Se il liberalismo appare ed è il privilegio di alcuni, è destinato a morire. Perché rinnega i suoi valori.

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