Lo sciopero generale indetto da Cgil e Uil è un segno importante di vitalità di una democrazia. Ed è anche la conferma di una risorsa che sta diventando più scarsa nelle democrazie avanzate: la presenza di sindacati che si pongono in una prospettiva di rappresentanza generale del mondo del lavoro, senza rinchiudersi dunque nella mera rappresentanza degli interessi di singole categorie.

Eppure, gli stessi leader sindacali sanno bene che queste richieste difficilmente troveranno delle risposte da parte del governo. Così la mobilitazione e lo sciopero finiscono per avere più una funzione interna di compattamento delle organizzazioni sindacali. Si manifesta una sensazione di ritualità accompagnata anche da un evidente affievolimento dell’attenzione da parte dei media e da preoccupazioni tutto sommato modeste da parte delle forze di governo.

Le istanze dei lavoratori

Questo non vuol dire che siano fondate le accuse rivolte ai sindacati da esponenti del governo di «fare politica». Perché non si possono affrontare se non con un’interlocuzione seria con il governo – e quindi con la politica – temi come quelli sollevati dai sindacati che hanno indetto lo sciopero, dopo essere stati informati e consultati sulla manovra a cose fatte.

Si tratta di questioni che riguardano il peggioramento del potere d’acquisto dei lavoratori, la crescita della precarietà, il degrado della sanità pubblica, l’assenza di un’accorta politica industriale e più in generale la mancanza di un progetto per lo sviluppo inclusivo.

Il problema su cui dovrebbero interrogarsi le organizzazioni sindacali – e non solo loro – in realtà è un altro. Come è possibile far rendere meglio quell’assetto – culturale e organizzativo – dei sindacati italiani volto alla rappresentanza generale del mondo del lavoro?

Ci troviamo di fronte a un capitale di grande rilievo per rispondere più efficacemente alle istanze dei lavoratori, ma anche ai bisogni del paese nel suo complesso, che non si riesce a valorizzare adeguatamente.

Il rapporto con il governo

Un primo nodo che si pone in questa prospettiva riguarda il modo di rapportarsi ai governi: il linguaggio ma anche le pratiche seguite. Il linguaggio è immediatamente quello rivendicativo della contrattazione aziendale. Si presenta una piattaforma con una serie di richieste e si avvia una negoziazione, eventualmente sostenuta da mobilitazione e scioperi.

Questa modalità di azione ha dato dei risultati in passato (in particolare negli anni Settanta) quando la forza sindacale era molto alta così come la vulnerabilità delle aziende e delle istituzioni politiche al conflitto, e bastava uno sciopero generale per far traballare un governo. Oggi non è più così.

Ma i sindacati italiani hanno ancora una risorsa importante: la maggiore capacità, in quanto organizzazioni ampie e orientate alla rappresentanza generale del lavoro, di sostenere interventi universalistici nel campo delle politiche economiche (innovazione e riorganizzazione industriale) e di quelle sociali (welfare, pensioni, lotta alla povertà).

A differenza di piccoli sindacati che possono permettersi di non curarsi dei costi per la collettività delle loro rivendicazioni. Le grandi organizzazioni sindacali dei lavoratori possono allora essere una risorsa per la politica che voglia allungare lo sguardo e voglia sottrarsi all’influenza particolaristica degli interessi forti e di singole categorie che difendono rendite con il ricatto elettorale.

Tutto ciò richiede di passare dalla rivendicazione di singoli interventi (spesso anche condivisibili) alla concertazione istituzionalizzata di grandi scelte economiche e sociali per le quali occorrono progetti e non piattaforme. Bisogna spiegare quali risorse si vogliono impiegare e dove le si vogliono prendere in modo dettagliato, e non in termini generici. E occorre mostrare come si integrano i vari interventi.

“Democrazia negoziale”

Naturalmente, è facile osservare che affinché la concertazione possa dare buoni frutti ci vuole la disponibilità della politica e anche delle rappresentanze imprenditoriali. Sappiamo che in entrambi i casi – per motivi diversi – questa disponibilità per ora non c’è (resta da vedere che cosa farà il Pd con la nuova dirigenza). Le prospettive di passare dalla rivendicazione alla concertazione sono dunque al momento molto scarse. Vale però la pena di avviare una riflessione su questi temi, che dovrebbe nutrirsi anche di un’analisi più attenta all’esperienza di altri paesi, come quelli dell’Europa centro-settentrionale, dove una “democrazia negoziale”, pur con i suoi problemi, è quella che più si è avvicinata all’obiettivo di conciliare crescita economica e contrasto alle disuguaglianze.

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