A destra tutto marcia come un carro armato da combattimento. Nel Pd si va in bicicletta, attenti a non pestare le formiche. Ma questa differenza non deve dispiacerci. Leadership autocratica e democratica sono molto diverse: l’una centralizzata senza dire ad alta voce, l’altra vive di deliberazione pubblica
Scrive Marco Damilano su Domani che nessun osservatore si attarda sui candidati delle liste di Fratelli d’Italia per le prossime elezioni europee, a differenza di quanto accaduto per quelli del Pd, «discussi e sviscerati sulla stampa, nei talk, sui social, con l’entusiasmo degli entomologi». Il nome sul simbolo di Giorgia Meloni? Digerito come l’acqua. A destra tutto marcia come un carro armato da combattimento. Nel Pd si va in bicicletta, attenti a non pestare le formiche. Ma questa differenza non deve dispiacerci. Leadership autocratica e democratica sono molto diverse: l’una centralizzata senza dire ad alta voce, l’altra vive di deliberazione pubblica.
La lingua italiana non ha una parola che traduca “leader” e “leadership”. I termini nostrani sono “capo” e “duce” che non hanno natura e significato democratici; desunti dal mondo militare, implicano disciplina incontestata e identificazione con chi comanda. Non che tra massa e capo manchino capetti: la gerarchia è una scala discendente. Ma la dimensione civile-politica è strutturalmente assente (imposta semmai dalla democrazia costituzionale).
La leadership si snoda nel mondo anglosassone, soprattutto dalla Rivoluzione inglese del Seicento per acquistare una fisionomia democratica con la nascita dei movimenti e dell’opinione pubblica. Per John Dewey, la leadership democratica nasce per gemmazione dalla vita associativa, e si esprime nella collaborazione e nell’assunzione di responsabilità verso seguaci e cittadini. La leadership democratica richiede un surplus di responsabilità da parte di tutti/e coloro che contribuiscono a costruirla: dal seguace, al leader, al gruppo intermedio che con il leader collabora.
Cultural scrambling
Il Pd ha faticato a costruire una leadership democratica. Il personalismo sganciato dalla collettività e sostenuto da sodali fidati lo posizionano a metà strada tra logica del comando e logica del notabilato. A stento cresce la leadership democratica. Questa resistenza si vede bene con la segreteria Elly Schlein.
Forse perché giovane o perché donna o perché esterna alla macchina del notabilato: la sua leadership, la prima a porsi consapevolmente come democratica, trova ostacoli permanenti dentro il partito. Sono ostacoli non sempre limpidi nei propositi e dunque meritevoli di critica, anche perché l’Italia si trova terribilmente vicina a soluzioni autoritarie.
Nel secolo passato, una pensante responsabilità del suicidio liberale fu della leadership tradizionale che, o non capì la natura del movimento reazionario di massa o pensò di usarlo per domare il dissenso e ritornare in sella. Errori di una classe politica mediocre e miope che consegnò il paese a Benito Mussolini. La storia non si ripete, ma le condizioni politiche e le azioni del passato aiutano a comprendere, come insegna Niccolò Machiavelli.
La leadership democratica è responsabilità collettiva: si impara e ci si corregge facendo. Tiene insieme generazioni ma non si adatta al paternalismo. Tiene insieme culture politiche ma le mescola, liberandole dai recinti dentro i quali erano prima di dar vita al partito. «Non possiamo non dirci cristiani», diceva il laicissimo Benedetto Croce. Ovvero i valori di universalismo e rispetto della persona sono di tutti, non della parte che li ha seminati. Lo stesso vale per quelli di solidarietà con i lavoratori e i diritti sociali.
In questo cultural scrambling, la continuità di leadership è innovazione, non replica o cieca deferenza. Le radici, se sono sane, sono trasportabili, non sclerotizzano né impongono di restare in quel pezzo di terra nel quale sono state piantate.
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