- «Al governo abbiamo chiesto un incontro ad agosto, servono decisioni immediate. Bisogna introdurre la patente a punti: le imprese che non rispettano gli standard di sicurezza non possono continuare a produrre, né fare gare d’appalto».
- «Il governo poteva decidere per legge l’obbligo vaccinale e invece ha deciso l’obbligo del green pass a scuola. Con conseguenze discutibili: i tamponi non devono essere a carico dei lavoratori e chi non è vaccinato deve essere utilizzato in attività diverse, come nella sanità».
- «Non siamo no vax, ci siamo battuti per ottenere i protocolli di sicurezza. Ci siamo battuti per le vaccinazioni per tutti. Ma non si può usare il pass per colpire i lavoratori. Il rischio è che passi il messaggio “liberi tutti”, e che non c’è più bisogno di protezioni e distanziamento».
«Siamo di fronte a una strage che continua. Ogni giorno tre morti sul lavoro. Si muore perché sono state bloccate le sicurezze, si muore perché si cade dall’alto, si muore come si moriva trenta, forse quarant’anni fa. Perché la sicurezza e la salute, anziché essere considerate un investimento e un vincolo, continua ad essere considerata un costo. E perché non si investe sulla prevenzione e sulla formazione e la qualità del lavoro». Il segretario della Cgil Maurizio Landini ha appena concluso un lungo incontro con il ministro del Lavoro Orlando e quello della Salute Speranza. Con Orlando si rivedono lunedì sulla riforma degli ammortizzatori sociali. Ma ora si parla di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro, le grandi emergenze di queste ore.
Tre mesi fa la morte dell’operaia Luana D’Orazio, triturata da un orditoio, aveva suscitato grandi emozioni e promesse. Ora è morta Laila El Harim, schiacciata da una fustellatrice. In mezzo, altri incidenti, altre morti. Il ministro Orlando aveva annunciato provvedimenti. Non si è fatto abbastanza, o non si è fatto niente?
Lunedì scorso abbiamo chiesto direttamente al presidente del Consiglio che tutto il governo assuma questa questione come centrale. Abbiamo chiesto che ad agosto venga fissato un incontro per prendere decisioni immediate. È arrivato il momento di introdurre la patente a punti: le imprese che non rispettano determinati standard di sicurezza non possono continuare a produrre, né presentarsi alle gare di appalto. E c’è bisogno di assunzioni nei servizi di medicina territoriale delle Usl e agli ispettorati del lavoro. Ma serve anche combattere e ridurre la precarietà e ripristinare percorsi di formazione alla sicurezza come diritto di tutti i lavoratori.
A proposito di sicurezza, eravate perplessi sull’obbligo di green pass a scuola. Avete ceduto?
Il governo poteva decidere per legge l’obbligo vaccinale e invece ha deciso per l’obbligo del pass. Tra l’altro in un settore dove più del 90 per cento del personale della scuola si è vaccinato. Trovo discutibili alcune conseguenze di questo provvedimento. Per questo chiederemo al ministro dell’Istruzione e al governo di migliorare alcuni aspetti. Il primo: con l’obbligo del pass per chi non è vaccinato diventa obbligatorio il tampone; ma se è un requisito obbligatorio per poter lavorare non può essere a spese del lavoratore. Secondo: è sbagliata la logica delle sanzioni ai lavoratori quando si può, come è avvenuto nel settore sanitario, utilizzarli in attività diverse. Una giusta preoccupazione non può avere ricadute che peggiorano le condizioni di lavoro. E non si può far finta di non vedere che i problemi della scuola non sono ancora stati risolti: dal trasporto al sovraffollamento delle classi alla necessità di assunzioni stabili.
L’entusiasmo di Confindustria per il green pass vi ha fatto sospettare che le aziende vogliano risparmiare sulla sicurezza?
Non vorremmo che dietro il pass obbligatorio, o addirittura il vaccino obbligatorio, passi il messaggio “liberi tutti”, e che non c’è più bisogno di protezioni e distanziamento. Non è così, ce lo dicono i medici ed è sotto gli occhi di tutti che, l’uso delle mascherine, il distanziamento e la sanificazione dovranno continuare anche quando saremo tutti vaccinati e tutti con il pass. In questo anno e mezzo molti lavoratori hanno tenuto in piedi il paese. Contro di loro non si può usare una logica ritorsiva.
Ma perché un lavoratore, come un cittadino, non dovrebbe vaccinarsi?
Intanto ci sono lavoratori fragili. Ma ci sono paure, anche perché non c’è stata una campagna informativa brillante. Va rilanciata una campagna di informazione. Ma deve essere chiaro che i luoghi di lavoro in questo anno e mezzo sono stati fra i luoghi più sicuri in assoluto proprio grazie ai protocolli di sicurezza, anche quando le persone non erano vaccinate.
Scusi segretario, ma teme di scontentare i suoi iscritti vicini alla Lega? Non teme di essere confuso con un No-vax, o che bordeggia il negazionismo, come Matteo Salvini?
Assolutamente no, noi abbiamo scioperato un anno e mezzo fa per ottenere i protocolli di sicurezza. Ci siamo battuti per le vaccinazioni per tutti, perché i vaccini diventino un diritto nel mondo a prescindere dal reddito. Ma non si può usare il green pass per colpire i lavoratori, anche quelli che possono avere dei dubbi e delle paure e che devono essere aiutati a superarle.
Ha l’idea che l’anno scolastico si aprirà meglio dell’anno scorso?
Noi ci battiamo per questo. Ma siamo preoccupati perché una serie di questioni non sono state affrontate. Siamo sempre lì: abbiamo chiesto al ministro di applicare, in tutte le sue parti, il patto per la scuola firmato pochi mesi fa che prevedeva, tra l’altro, di stabilizzare i precari e di ridurre il numero degli studenti per classe.
Nel frattempo una grandinata di licenziamenti, via WhatsApp, via sms, via mail. L’«avviso comune» firmato con il governo e le parti datoriali non funziona?
Quell’avviso comune ha permesso al sindacato, al governo e anche alle istituzioni locali di chiedere alle multinazionali di Firenze, della Brianza e di Brescia che hanno agito in modo banditesco di ritirare i licenziamenti. In molti casi quell’accordo ha permesso alle aziende di utilizzare la cassa integrazione anche quando era finito il blocco dei licenziamenti. Da queste esperienze emerge il fatto che in alcuni settori siamo di fronte a un processo di riorganizzazione che va messo sotto controllo: si tratta di multinazionali che non chiudono qui e licenziano perché non hanno più lavoro ma perché vogliono delocalizzare la produzione in altri paesi europei, magari dopo aver preso finanziamenti pubblici nel nostro paese. In tutto il settore dell’automotive e della mobilità è in atto un processo legato anche ai nuovi prodotti che verranno realizzati. La vera risposta è una normativa ad hoc che non abbiamo.
La legge del governo Conte I non ha funzionato?
È sotto gli occhi di tutti. Serve una legge, ma serve anche avere una visione sulle filiere che riguardano i processi di cambiamento produttivi ed ambientali, dalla raffinazione alla componentistica di plastica per le auto, per fare finalmente quella politica industriale che da anni nel nostro paese non si fa. Questo processo di cambiamento non può essere lasciato al mercato. Serve un concorso ampio di politiche del governo, investimenti pubblici, ricerca, riqualificazione dei lavoratori. Gli investimenti europei si devono collegare a una politica industriale, che per ora non c’è.
Al Ministero dello sviluppo economico ci sono più di 80 tavoli aperti. A suo parere il governo è consapevole dell’emergenza?
Quello che hanno fatto le ultime multinazionali mi pare abbia acceso una lampadina anche nel governo. Ma non è ancora sufficiente.
Nei prossimi sei anni saremo di fronte a cambiamenti radicali. Serve definire una strumentazione sia di protezione del lavoro, sia di riqualificazione del sistema produttivo. Per capirci: gli autobus elettrici che ci siamo impegnati a far circolare si faranno in Italia o continueremo a importarli dalla Cina? Le energie rinnovabili che dobbiamo sviluppare, dall’offshore all’eolico al solare, tutta quella filiera produttiva la costruiamo in Italia o continuiamo a comprarla all’estero? Potrei proseguire a lungo.
Al governo e al sistema delle imprese noi lanciamo la sfida: contrattare insieme questo cambiamento. Ma la sicurezza e la stabilità del lavoro debbono essere un vincolo sociale sia per il governo e che per le imprese.
L’Ilva è di fronte all’ ennesimo salvataggio. Dovrete prendere atto che quella fabbrica è finita?
No, in realtà nella siderurgia siamo di fronte a una possibilità di produrre un processo all’avanguardia in Europa. Un paese industriale senza un’industria siderurgica degna di questo nome non esiste. Siamo il secondo paese industriale d’Europa. Serve un piano nazionale della siderurgia: non c’è solo Ilva, c’è Piombino, Terni, gli acciaieri del nord. Siamo di fronte a un’occasione. Ma occorre ragionare come paese, fare sistema, i vincoli sociali ed ambientali debbono essere la base di nuove imprese. Del resto è previsto l’ingresso dello stato nella maggioranza di ArcelorMittal e questo deve garantire la riconversione produttiva e ambientale, e una tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini degna di questo nome.
Su Mps, il rischio non è quello di investire tanti miliardi per salvare non i posti di lavoro ma i poteri locali?
Abbiamo bisogno anche di un sistema creditizio che sia in grado di sostenere investimenti, le imprese e partecipare al processo di innovazione complessiva del paese. Noi siamo contrari allo spezzatino, chiediamo al governo di conoscere il piano industriale che può portare alla fusione fra Unicredit e Mps, qual è la funzione che si vuole dare a questo nuovo gruppo che diventerebbe il secondo per dimensione nel paese.
Ed è la discussione da fare proprio per i tanti soldi pubblici che in questi anni sono stati messi sul piatto per salvare Mps. Non si possono usare i soldi pubblici per licenziare le persone.
Il presidente Draghi è soddisfatto della ripresa dell’Italia. Ma fin qui è una ripresa senza lavoro.
Il punto centrale è creare lavoro. È l’obiettivo che il governo deve assumere. Gli investimenti, i progetti che in questo momento si discutono nel nostro paese devono avere un assillo: creare lavoro, per i giovani, le donne, il Mezzogiorno.
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