Senza una regolamentazione del lobbying che contribuisca a definire il perimetro entro cui rientra la legittima e necessaria attività di rappresentanza di interessi, ogni mediazione tra portatori di interessi e decisori pubblici potrebbe, potenzialmente, nascondere dinamiche corruttive
Ora che la riforma della giustizia penale approvata dal governo approda al Senato, è utile tornare a parlarne per rendere il provvedimento davvero utile ed efficace. Negli scorsi mesi il dibattito pubblico si è concentrato soprattutto su due misure introdotte dal ministro della Gustizia, Carlo Nordio, che riguardano l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e la revisione della disciplina sulle intercettazioni telefoniche e ambientali.
È invece rimasto solo solo sullo sfondo, un tema che appare non meno rilevante, la proposta di modifica dell’articolo 346-bis del Codice penale che punisce il traffico di influenze illecite, un reato che è stato introdotto con la legge anticorruzione che risale al 2012.
Mediazioni lecite
Scongiurato il rischio di un’abolizione tout court di questo reato, il testo uscito dal Consiglio dei Ministri ha cercato di assegnare maggiore determinatezza alla fattispecie in questione. Qualsiasi modifica dell’art. 346-bis rischia, però, di essere insufficiente fino a quando l’Italia sarà sprovvista di una normativa che autorizzi e definisca, in termini precisi, le mediazioni lecite.
Infatti, senza una regolamentazione del lobbying che contribuisca a definire il perimetro entro cui rientra la legittima e necessaria attività di rappresentanza di interessi, ogni mediazione tra portatori di interessi e decisori pubblici potrebbe, potenzialmente, nascondere dinamiche corruttive, oppure essere considerata patologica anche quando è del tutto lecita.
D’altra parte, l’attuale indeterminatezza dei confini del reato ha portato le Corti ad agire con grande cautela. Per rendersene conto basta vedere il limitatissimo numero di condanne definitive per traffico di influenze illecite che sono state comminate negli ultimi anni.
La stessa Cassazione, con due importanti pronunce (la sentenza numero 40518 del 2021 e la numero 1182 del 2022), ha riconosciuto, anche in termini generali, la difficoltà di accertare il reato in mancanza di una precisa regolamentazione dell’attività dei gruppi di pressione.
Vuoto normativo
Oggi, dunque, il vuoto lasciato dalla norma è parzialmente riempito dal solo intervento della giurisprudenza di legittimità, mancando ogni altro parametro normativo che possa escludere la punizione di fisiologiche attività di mediazione, come quelle di lobbying, necessarie per garantire al legislatore informazioni e dati utili a disegnare politiche e a scrivere leggi.
Per queste ragioni, si dovrebbe intervenire, al più presto, per rendere pienamente trasparenti i processi decisionali, affinché, da una parte, tutti i portatori di interessi, l’industria così come le Ong, le associazioni di categoria al pari delle organizzazioni non profit, abbiano la possibilità di far conoscere il loro punto di vista alle istituzioni; dall’altra, per consentire all’opinione pubblica la valutazione di chi ha effettivamente contribuito a determinare le scelte che vengono compiute dai decisori pubblici.
La stessa Commissione europea, con il suo recente rapporto sullo stato di diritto negli Stati membri, ha raccomandato, per l’ennesima volta, al nostro paese, di legiferare in questa materia.
Il caso Qatargate
Anche di questo, si sarebbe dovuto occupare il ministro Nordio, che lo scorso autunno aveva riconosciuto la necessità di regolamentare il lobbying nel pieno dell’indagine (ancora in corso) aperta dalla magistratura belga sul cosiddetto Qatargate, che a Bruxelles ha coinvolto alcuni parlamentari europei e loro collaboratori.
Confidiamo che il Senato, in cui nella precedente legislatura si arrivò a un passo dall’approvazione definitiva di una legge sul lobbying, si occupi di definire le influenze lecite prima di ripensare quelle illecite.
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