- Il capo della Lega mostra che a comandare e trattare con Draghi è ancora lui e ha bisogno di confermarlo con immagini evocative.
- Intanto i parlamentari del nord che pure ha scelto lui sono in rotta con bandiere e battaglie della fase sovranista. Non hanno mai approvato fino in fondo i nuovi acquisti e le scelte tematiche della nuova linea.
- I governatori fanno poi notare che l’attrattiva della Lega sull’elettorato tradizionale sta scemando: Salvini ora deve scegliere chi scontentare.
Matteo Salvini ha appena finito di far pace con Mario Draghi, ma la tesa ora di colloquio tra il leader della Lega e il premier che ha risolto il conflitto sulla riforma fiscale non è bastata per consolidare la posizione di comando su senatori e deputati che il segretario ha portato in parlamento nel 2018. Salvini ovviamente non ha alcuna intenzione di mollare la guida del partito e ha bisogno di immagini che lo certifichino, come il colloquio con Draghi. Ma ora molti eletti della Lega danno voce ai dubbi che hanno in animo da tempo. I fedeli ripetono che Salvini e Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico e amico-nemico del Capitano, sono solo due facce della stessa medaglia, due politici con «stili diversi», ma si capisce che in molti vorrebbero che la segreteria del partito prestasse più ascolto a prese di posizione governiste come quella di Giorgetti nell’ultima intervista alla Stampa. Più che una successione, una “giorgettizzazione”. L’esempio che portano i parlamentari è la delegazione di governo: se si dovesse perdere per strada qualche corpo estraneo entrato di recente nella nuova Lega, pazienza.
Il Salvini uscito malconcio dalle amministrative deve scegliere chi scontentare, bloccato com’è tra le anime di un partito che ha contribuito a creare.
Presentando Noi con Salvini nel 2015, il marchio che poi ha portato all’organizzazione di una classe dirigente anche a sud, il segretario ha tentato il salto. Il progetto allora era in mano all’esperto Raffaele Volpi, con tre legislature alle spalle, e più di recente anche presidente del Copasir. La scelta di ampliare la base del partito aveva permesso di capitalizzare il consenso che Salvini raccoglieva fuori dal nord, ma era stata anche la chiave per emanciparsi dai maggiorenti settentrionali che avevano assistito e tollerato la sua ascesa.
Solo che creare dal nulla una classe dirigente stimata e rispettata anche dai leghisti della prima ora non è un’operazione facile, anche per politici navigati come Salvini e i suoi fedelissimi. Oggi che il leader della Lega è in crisi nei sondaggi e veste controvoglia i panni del sostenitore del governo Draghi, le conseguenze negative dell’ampliamento emergono un pezzo alla volta. A qualche anno di distanza, il corpaccione nordista non ha evidentemente digerito le scelte legate alla processo di “sovranistizzazione” della Lega.
Il “militante ignoto”
«La scelta di ampliare il partito era inevitabile», dice un senatore lombardo che milita nella Lega dalla prima ora, «ma a sud in tanti ancora non hanno compreso il manifesto del “militante ignoto”».
Il riferimento è al leggendario codice di Hammurabi leghista stilato nel 2007 da Giorgetti, che omaggiava chi si dedica anima e corpo al progetto leghista senza chiedere nulla per sé e senza cercare gloria personale ma impegnandosi per il successo del partito. Secondo l’attuale ministro in frizione con Salvini, il vero attivista è quello che «prende il pullman per andare e portare con orgoglio la bandiera della Padania alla manifestazione a Roma. È quello che piova o tiri il vento, esce al mattino con i “soci del gazebo” e loro due o tre montano la postazione, sacramentando sugli assenti, sui ritardatari e su Bellerio che ha mandato poco materiale». Non è una descrizione che si attaglia perfettamente alla cultura politica di Claudio Durigon o Laura Ravetto, per dire.
La Lega al sud continua a essere in buona salute, e Salvini può rivendicare qualche successo elettorale come quello di Latina, dove il centrodestra va al ballottaggio con una posizione di vantaggio e la Lega è a una manciata di voti da Fratelli d’Italia (14,02 per cento contro 14,94), ma i risultati elettorali dicono altro. Per esempio, a Trieste Giorgia Meloni ha raccolto il 5 per cento in più rispetto a Salvini, a Torino lo stacca di quasi due punti percentuali e a Milano è appena un punto sotto. La preoccupazione salviniana al nord è un’opportunità per i potenti presidenti di Friuli-Venezia Giulia, Veneto e Lombardia di notare la scarsa attrattiva della Lega salviniana per l’elettorato tradizionale. I presidenti di regione nelle ultime comparse pubbliche (inusualmente numerose) hanno messo l’accento sugli errori di alcuni nuovi acquisti di epoca salviniana: nel partito non mancano di sottolineare come un allargamento così repentino ha aperto la porta anche a elementi sospetti.
Chi è nato e cresciuto nella Lega del nord e risponde a un elettorato composto soprattutto dal tessuto produttivo delle province settentrionali è in difficoltà a difendere le battaglie ideologiche sovranisteggianti a cui la Lega si è votata. «Quando alziamo la voce con Draghi gli imprenditori del mio territorio mi chiedono preoccupati se davvero vogliamo uscire dal governo e devo tranquillizzarli», dice un deputato che milita nel partito dai giorni del liceo. Anche gli scontri sul green pass hanno provocato malumori: «Ci chiedono di fornire soluzioni pragmatiche, quella di sicuro non lo è stata», dice un senatore.
Perfino le questioni legate alla difesa della vita e la lotta contro il ddl Zan non infiammano più (o forse non lo hanno mai fatto) gli animi: «Ma davvero questi temi ci fanno guadagnare voti?», si chiede retoricamente un deputato.
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