- Lo scontro di giovedì sera sulla riforma del catasto è solo l’ultimo degli episodi su cui la maggioranza ha rischiato di spaccarsi: è già successo su balneari, tetto del contante e proroga dello stato d’emergenza.
- Uno alla volta emergono tutti i temi che i leghisti definiscono «non essenziali» e su cui non ha più interesse a raggiungere un compromesso col resto della maggioranza, contando sul fatto che Draghi non possa dimettersi nell’attuale contesto geopolitica.
- Il calendario dei prossimi mesi offre molte occasioni ai leghisti per mettersi di traverso, dalla discussione del resto del testo della delega fiscale alla ratifica del Mes, dallo ius scholae alle riaperture.
La Lega ha scelto la sua strada, e non è quella del resto della maggioranza. La prova definitiva è arrivata con il voto in commissione Finanze alla Camera di giovedì sera sulla riforma del catasto, su cui il governo aveva minacciato le dimissioni. Alla fine il centrosinistra ha difeso la misura dallo stralcio proposto dalla Lega, che si è tirata dietro l'intero centrodestra rischiando di mettere in minoranza il governo, riuscendo a salvare l’esecutivo con un solo voto di scarto.
Tra identità ed elezioni
Il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari invece è chiaro: «Se si va avanti in questo modo, c’è il rischio che la maggioranza si spacchi. Se continua a spaccarsi, prima o poi qualche cambiamento nel governo potrebbe esserci, perché o ne prende coscienza Draghi o qualche partito della maggioranza si stufa». Quello di ieri in commissione, dove il governo non può cadere poiché la sfiducia può essere votata solo in aula, era soltanto un avvertimento.
Il partito sembra lottare tra la necessità di riaffermare la propria identità nel centrodestra, soprattutto dopo l’elezione del Quirinale in cui Matteo Salvini non ha saputo gestire le trattative, e le prossime elezioni comunali di primavera (andranno al voto quasi mille comuni), in cui il centrodestra non può permettersi di perdere. La Lega punta i piedi sui «temi divisivi posti dalla sinistra», per cercare di ritagliarsi uno spazio di visibilità perduto anche per colpa dell’operato del suo segretario.
La Lega può contare su un fatto: è difficile che in questo momento, con la guerra russo-ucraina ai confini dell’Europa e il Pnrr da portare avanti, il premier Mario Draghi scelga di dimettersi. Un alibi che sta lasciando liberi i leghisti di bloccare i provvedimenti, di puntare su temi elettorali, come quello sulla casa e relative tasse, che possano parlare agli elettori delle comunali.
I precedenti
Le divisioni sul catasto sono emerse la scorsa estate, quando l’allora presidente della commissione Luigi Marattin (Iv) aveva avviato la discussione del testo della legge delega fiscale. Ultimamente la volontà (e l’interesse) di trovare accordi è mancata anche su altri temi, come nel caso del tetto al contante previsto dal decreto Milleproroghe. Il centrodestra unito è riuscito a mantenerlo ben oltre il limite che avrebbe voluto il governo.
Stesso discorso per le restrizioni anti Covid, una parte dei parlamentari della Lega ha permesso l’approvazione di emendamenti che alleggeriscono le misure per i non vaccinati. E poi c’è l’annosa questione dei balneari, un bacino elettorale molto caro al centrodestra, su cui Salvini si è speso per provare a rinviare l’applicazione della direttiva Bolkenstein.
Alla fine le gare per l’assegnazione delle spiagge si faranno, ma la Lega ha promesso una dura battaglia affinché Draghi rimetta mano alla decisione.
Per quanto riguarda quel che accadrà da oggi in poi, hanno messo le mani avanti i deputati Massimo Bitonci e Alberto Gusmeroli: «Da oggi (giovedì, ndr) mani libere» sul resto dei temi in discussione nel testo della delega.
Parliamo della flat tax, dei regimi speciali, della cedolare secca sugli affitti, le cartelle e il saldo-acconto, argomenti che la commissione affronterà nelle prossime tre settimane, prima dell’approdo del testo in aula il 28 marzo. E poi c’è il riconoscimento della cittadinanza italiana ai migranti nati o cresciuti in Italia che hanno frequentato almeno cinque anni di scuola. È una proposta appoggiata da M5s, Pd e Leu, su cui la Lega ha già da ridire.
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