- Oltre trenta Ong, tra cui Rete Disarmo, Amnesty, Greenpeace e Save the Children, denunciano «un’azione concentrica per smantellare le norme che regolamentano le esportazioni di armi e di sistemi militari».
- A suscitare l’allarme delle organizzazioni pacifiste è stata in particolare l’inedita presa di posizione del Capo di Stato Maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli che, nella relazione annuale sulle esportazioni militari trasmessa alle Camere ha criticato esplicitamente la scelta del secondo governo Conte di revocare alcune autorizzazioni.
- Il sottosegretario alla Difesa Mulé ha detto che bsiogna intervenire sulla legge. L’attacco alla legge sull’export di armi non è una novità, ma la simultaneità delle recenti prese di posizione ha allarmato i sostenitori.
La legge che vieta l’export di armi a paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani non si tocca: a lanciare un appello a tutela della 185/90 sono 33 Ong, tra cui Rete Disarmo, Amnesty, Greenpeace e Save the Children, che denunciano «un’azione concentrica per smantellare le norme che regolamentano le esportazioni di armi e di sistemi militari».
In queste settimane, «diversi think tank e opinionisti del settore della difesa, insieme ad alcuni parlamentari ed esponenti militari, stanno facendo pressioni per rivedere le norme in vigore allo scopo di facilitare le esportazioni di armamenti e la competitività dell’industria militare».
A suscitare l’allarme delle organizzazioni pacifiste è stata in particolare l’inedita presa di posizione del Capo di Stato Maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli che, nella relazione annuale sulle esportazioni militari trasmessa alle Camere il 27 aprile, ha criticato esplicitamente la scelta del secondo governo Conte di revocare alcune autorizzazioni: «Recenti interpretazioni in termini restrittivi delle esportazioni verso alcuni Paesi dell'area Mediorientale (in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) hanno suscitato perplessità e rammarico da parte delle massime Autorità locali, configurando potenziali rischi trasversali per tutto il Sistema Paese”. Subito dopo, l’affondo: “ipotizzare di poter confermare anche in futuro le posizioni ostative sopra citate, potrà comportare unicamente degli evidenti svantaggi per il nostro Paese che vanno assolutamente evitati”. Senza troppi giri di parole, il capo delle Forze armate italiane chiede, insomma, a Governo e Parlamento un’interpretazione meno rigorosa della 185 e l’archiviazione dell’embargo sulla vendita di bombe e missili a Riad e Abu Dhabi. Netto il commento delle Ong: «È inaccettabile che esponenti delle istituzioni si facciano promotori di istanze per modificare le leggi e ridurre i controlli».
Non solo lo Stato Maggiore
La posizione dello Stato Maggiore non è certo isolata. Una pubblicazione dell’Istituto affari internazionali (Iai), uscita il 30 aprile, chiede urgenti «modifiche normative alla legge 185/90 per mantenere rapporti privilegiati ed efficaci con i Paesi partner e alleati esterni all’Unione». Lo spunto è la Brexit, che ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione, ma nel contesto di un export militare orientato soprattutto a Paesi extra Nato e Ue, anche altre destinazioni potrebbero beneficiare del «grado di flessibilità e semplificazione» richiesto dal think tank. Che il bersaglio sia proprio la legge nata 31 anni fa con il sostegno della società civile lo si evince anche da un articolo uscito poco prima a firma di Michele Nones, vice presidente dello Iai ed ex consulente del ministero della Difesa: «Pensare di regolamentare l’interscambio di equipaggiamenti militari con vecchie regole è come provare a regolamentare il traffico aereo con le norme e le procedure in vigore quando c’erano solo gli aerei a elica. Ma, avendo trasformato questa legge in un tabù e avendo ostracizzato ogni tentativo di adeguamento, l’impianto normativo è rimasto in gran parte lo stesso». Ancora più esplicito Gianandrea Gaiani - direttore di Analisi Difesa e consigliere per le politiche di sicurezza del Viminale quando il ministro era Matteo Salvini - che di recente ha placidamente sottolineato che «con la sola logica dei diritti umani, sarebbero ben pochi i Paesi a cui esportare».
A quale altra bussola dovrebbe far quindi riferimento il nostro export secondo Gaiani? «L’unica valutazione legittima per un Paese che vuole essere potenza di riferimento, almeno nel Mediterraneo allargato», sostiene, è vendere armi «ai paesi che sosteniamo» e negarle «ai competitor, ai rivali e ai potenziali nemici». Senza, ovviamente, preoccuparsi dell’eventuale coinvolgimento dell’acquirente in conflitti armati o nella repressione del dissenso.
Il sottosegretario Mulé
Tra le prese di posizione più recenti, quella del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè che il 21 maggio, nel corso di un webinar organizzato dalla testata Formiche, ha ribadito la necessità di una «riflessione, non più rinviabile, per aggiornare la legge 185/90”, definita “antiquata». Obiettivo: permettere «un adeguato livello di flessibilità e semplificazione» per garantire l’interscambio dei materiali di armamento non solo con il Regno Unito post Brexit «ma anche con Paesi terzi affidabili». A fargli eco, il generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa ed ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che ha auspicato la bonifica del percorso autorizzativo dalle «numerose trappole in cui si incagliano regolarmente ormai quasi tutte le iniziative commerciali della nostra industria del settore». Nel mirino del generale finiscono, in particolare, la giustizia, la politica e, ovviamente, la 185/90, ritenuta «la madre di tutte le controversie»: «oltre 30 anni di vigenza la hanno resa difficilmente rapportabile agli odierni scenari di crisi interni e internazionali, nessuno dei quali è praticamente risparmiato dal dettato normativo italiano, soprattutto se applicato in maniera ottusa o da funzionari la cui firma potrebbe aprir loro le porte del tribunale».
L’attacco alla legge sull’export di armi non è una novità, ma la simultaneità delle recenti prese di posizione ha allarmato i sostenitori della legge. A scatenare la controffensiva, secondo le Ong, è stata la revoca delle autorizzazioni in corso per l’esportazione di missili e bombe verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti decisa dal Conte II e sostenuta da recenti sentenze della magistratura. «Per la prima volta in trent’anni, il complesso militare-industriale ha dovuto registrare la revoca di un’autorizzazione all’export armato, vedendo così messa a rischio la propria posizione privilegiata», fanno notare i pacifisti, che sottolineano come il comparto della Difesa, indicato spesso come «strategico per il sistema Paese», valga «meno dell’1 per cento sia del Pil sia delle esportazioni nazionali, così come per tasso occupazionale».
Un settore marginale per l’economia reale, ma con grande capacità di conquistare sostegno e finanziamento pubblico. Ecco perché, tra le richieste delle Ong, oltre all’applicazione rigorosa e trasparente della 185, c’è anche l’apertura di un approfondito confronto parlamentare sulle esportazioni militari che coinvolga anche le associazioni della società civile. Per evitare che a suggerire le politiche sull’export di armi siano sempre gli stessi.
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