- Presidente del Senato, presidente del Consiglio dei ministri, e infine presidente della Repubblica. Francesco Maurizio Cossiga è l’unico politico italiano ad avere accumulato le più importanti cariche politiche e istituzionali.
- Le esternazioni al fulmicotone non mancarono. La disposizione alla polemica, al confronto politico, allo scambio di idee, forti e decise, fanno da contraltare alla diffusa vacuità contemporanea.
- La vicenda del settennato di Cossiga è emblematica; pare si tratti di due pirandelliane figure alternantisi tra il pre e il post 1989. In realtà oltre al “personaggio” molto del cambiamento è indotto dal contesto, dal sistema politico che rapidamente muta.
Presidente del Senato, presidente del Consiglio dei ministri, e infine presidente della Repubblica. Francesco Maurizio Cossiga è l’unico politico italiano ad avere accumulato le più importanti cariche politiche e istituzionali. Il 24 giugno del 1985 è eletto alla più alta carica dello stato, proprio mentre da presidente del Senato prende direttamente parte alla gestione dell’elezione insieme alla presidente della Camera Nilde Iotti.
Politico di razza, politico di carriera, democristiano di ferro, come duro fu da ministro dell’Interno, tanto da meritare la K come prima sillaba del cognome, e le doppie “esse” con caratteri runici in stile nazista, affibbiategli dalla sinistra extra-parlamentare e dai movimenti, con i quali non ebbe momenti idilliaci. Una vita politica all’apice delle istituzioni politiche e repubblicane, sempre sull’ottovolante, in un percorso intriso di verve politica, di inclinazione e vis polemica, determinate dalla natura politica, dalle sue idee, e ideologia, ma anche dal contesto storico.
Nazionale e internazionale
Nazionale e internazionale, che non sono un alibi, ma un fatto con cui fare i conti. Al Viminale Cossiga arriva nell’anno delle elezioni del mancato “sorpasso”, nel 1976, e nel momento di maggiore spinta propulsiva del nemico comunista. Sono due anni intensissimi, e tragicamente fatali per la società italiana. Gli anni Settanta, gli anni del piombo rosso/nero, diversi, opposti e letalmente simili.
Nell’ultimo tratto di un portico, nel centro storico di Bologna, uno studente e militante di Lotta continua, a margine di scontri e manifestazioni viene ucciso dai colpi di Beretta esplosi da un giovane carabiniere. Pierfrancesco Lorusso ha soli venticinque anni. Per domare i disordini dei giorni seguenti Cossiga invia i blindati, diranno alcuni, carri armati di cartoni, diranno altri. Giorgiana Masi è invece una giovane manifestante radicale che partecipa a una manifestazione dei Radicali, indetta proprio a seguito del divieto di Cossiga di tenere cortei. La foto dell’agente in borghese, pistola in pugno, e gli strali di Pannella che invocano la correità morale del ministro democristiano che “giustifica” metodi forti in un contesto di grave tensione.
Cossiga ha uno stile al contempo istituzionale e sopra le righe, un po’ funzionario di partito, un po’ guascone, da sempre. Con un curriculum politico così denso e intenso gli errori, le gaffes, i problemi sono un rischio probabilistico, calcolato. Ma Cossiga ha anche una sorta di naturale attitudine al conflitto, alla tenzone. Al recitare al di fuori degli schemi, per indole. Era capo del governo quando gli venne notificata l’accusa di avere informato Carlo Donat Cattin, vicesegretario dello Scudo crociato, che il proprio figlio fosse ricercato in quanto militante di Lotta continua e per talune azioni militari. Con la ruvida schiettezza comunista Enrico Berlinguer gli comunicò che il Pci avrebbe votato la procedura per la sua messa in stato di accusa. Erano gli anni di piombo, per tutti. E Cossiga manifestò sempre il suo pensiero rimanendo in trincea, con posizioni certamente scomode, franche, e talvolta assai discutibili.
Sardo, lontano cugino di Enrico Berlinguer, coltivò amicizie e simpatie per gli indipendentisti baschi, che faceva un po’ sorridere pensando all’uomo di stato che intendeva difenderne le prerogative contro ogni rivendicazione eterodossa. Ad ogni costo. Come quando candidamente, ma con farcitura di spavalda provocazione, ricordò il suo contributo alla strutturazione della rete Gladio, o agli omissis sul rapporto che illustrava il piano sovversivo/semi-golpista Solo. Alla strage di Ustica del 27 giugno 1980, che lui attribuì a un missile francese che doveva abbattere l’aereo su cui viaggiava Muhammad Gheddafi. O ancora sulla strage fascista del 2 agosto dello stesso anno alla stazione di Bologna: «Per me fu un incidente», nel senso che un ordigno esplosivo sarebbe scoppiato per caso, mentre transitava sul suolo italiano trasportato da palestinesi dell’Olp. In quelle parole c’era un malcelato riferimento al cosiddetto “Lodo Moro” che prevedeva maggiore indulgenza verso i terroristi palestinesi purché non colpissero l’Italia.
Il paese crocevia di tutto, di troppo, ebbe anche un sussulto di orgoglio nazionale in un contesto di sovranità para-limitata, o meglio definita dai disegni geopolitici post-Yalta. Il dirottamento della nave Achille Lauro da parte di terroristi palestinesi condusse in una fitta vicenda diplomatica e militare un aereo con dentro i dirottatori alla base aerea di Sigonella. Craxi prese per il bavero Reagan che reagì, ma non troppo, e Cossiga neoeletto sostenne il premier socialista, e ne scaturì una crisi di governo per le proteste del filo atlantico Spadolini, ministro della Difesa.
Le dimissioni
L’affaire Moro investì duramente anche Cossiga, sul piano personale, come disse, su quello politico e istituzionale, almeno nel breve periodo. Il giorno del ritrovamento del cadavere dello statista del compromesso storico rassegnò le dimissioni, portando con sé un carico di responsabilità vere e presunte sulla mancata liberazione, anche per una trattativa con le Br mai avviata o mai cercata, formale o informale che fosse. La carica di membro del governo di Solidarietà nazionale gli varranno successivamente una certa indulgenza comunista proprio in chiave presidenziale. Dalla prigionia brigatista Moro invia (almeno) una lettera a Cossiga, prescindendo “da ogni aspetto emotivo” per invitarlo a propugnare la causa dello scambio, pur comprendendo evidentemente le ragioni di stato.
La disposizione al conflitto
Deputato dal 1958 e poi senatore per diritto acquisito dal 1992, Cossiga in certa misura termina la carriera politica “militante” in età relativamente giovane, almeno per gli standard nazionali. La fine del settennato quirinalizio comporta infatti una buona dose di marginalità, sebbene prestigiosa. Le esternazioni al fulmicotone non mancarono, né prima né dopo la fine delle esperienze istituzionali di rango. La disposizione alla polemica, al confronto politico, allo scambio di idee, forti e decise, fanno da contraltare alla diffusa vacuità contemporanea. Cossiga entrò in conflitto con esponenti di partito, con oppositori esterni ed interni alla Dc (da Moro ad Andreotti), con i giudici e con i comunisti. Etichettò Luciano Violante con sagace cattiveria, definendolo «il piccolo Vyshinsky», il giudice-boia dell’Urss di Stalin. Proprio la polemica giudiziaria gli valse, a sua volta, lo pseudonimo-epiteto di “picconatore”. Per le sue dirette accuse al parlamento, e al sistema politico, incapaci di riformarsi, di procedere all’adempimento dei loro doveri. Specialmente dopo la caduta del Muro di Berlino e le necessarie riforme da apportare. E in aria di Tangentopoli. Ma anche contro Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, come lo soprannominò, nella più generale critica all’automatismo della progressione di carriera in magistratura e alla inadeguatezza di ampi strumenti discrezionali in capo a neolaureati in giurisprudenza. E anche contro il Csm, con gesti a volte eclatanti. Nel 1998 è decisivo per la nascita del primo governo italiano guidato da un ex comunista: D’Alema entra a palazzo Chigi grazie alla pattuglia del neofondato movimento UdEur capeggiato da Cossiga. E che lo stesso rinomina quali “straccioni di Valmy”, per evocare un gruppo improbabile di soldati che sconfisse l’esercito prusso-ungarico, e rispondere per le rime alle accuse delle fila berlusconiane che lo tacciavano di tradimento.
Il settennato
Cossiga è eletto al primo scrutinio, mai successo sino ad allora, con una amplissima maggioranza (75 per cento) frutto di un accordo preventivo tra Dc, Pci e Psi – sebbene non troppo entusiasta – nonché degli altri parti laici. All’interno della Dc Andreotti e De Mita non lo osteggiano apertamente. Esponente della “sinistra Dc” sarà solo parzialmente un uomo di corrente, e mai comunque un capo all’interno del partito. Durante il suo mandato ha conferito l’incarico a cinque presidente del Consiglio, nominato cinque senatori a vita e altrettanti giudici costituzionali. La fase finale del settennato coincide con gli anni terribili della democrazia italiana, dalla sfiducia popolare crescente, la corruzione patente, disvelata, e l’attacco della mafia.
L’omicidio Falcone avvenne proprio nell’intermezzo, e interregno tra la presidenza Cossiga e la nascente elezione di Scalfaro, spinto sul Colle dall’indignazione civica dinanzi a un inerme parlamento impantanato e terrorizzato. Con messaggi convenzionali (quelli di fine anno) ed esternazioni di vario genere, Cossiga è stato uno dei capi dello stato più “loquaci”, specialmente nella fase finale del mandato e, va ribadito, soprattutto su tematiche istituzionali e giudiziarie. Ha proceduto allo scioglimento delle Camere nel 1987 con Fanfani e nel 1992 con Andreotti. Il Pentapartito come formula consolidata e l’asse Dc-Psi quale scheletro della politica di governo, immodificabile. Tanto che nel primo biennio Cossiga si ebbe la staffetta a Chigi tra socialisti e democristiani.
La vicenda del settennato di Cossiga è emblematica; a ben guardare pare si tratti di due pirandelliane figure alternantisi tra il pre e il post 1989. In realtà oltre al “personaggio” molto del cambiamento è indotto dal contesto, dal sistema politico che rapidamente muta. Fino al periodo pre caduta Muro ha un atteggiamento notarile perché il sistema si autoregola. Successivamente, Cossiga intuisce che il sistema si sta sfaldando e in modo irrituale prova a indicare la meta di una democrazia dell’alternanza, specialmente con il messaggio alle Camere del 1991. Forse anche per salvare la Dc. Il tutto nel limite del perimetro Nato. Ed è il punto che evoca durante una visita di stato in Scozia, accennando in forma non tanto sibillina e subliminale a Gladio; è il discorso di Edimburgo, a poche settimane dall’incombente semestre bianco.
Nel 1991 è stata persino adottata una riforma costituzionale proprio per far fronte alla peculiarità fortuita della presidenza Cossiga la cui durata terminava (semestre bianco) con la coincidente scadenza della legislatura. Il mandato presidenziale terminava il 3 luglio del 1992 e la legislatura (la decima) il 2 luglio dello stesso anno. Un incastro paradossale poiché il presidente non avrebbe potuto sciogliere né le Camere avrebbero potuto eleggere il nuovo capo dello stato secondo quanto previsto dall’art. 85 della Carta.
Il Pds di Occhetto intese perseguire la procedura di messa in stato di accusa del presidente, con vari capi di accusa tra cui il sostegno a Gladio e le “picconate” incostituzionali. L’attacco non scattò: dopo avere minacciato e annunciato varie volte le dimissioni dall’incarico, effettivamente le diede in una “giornata particolare” (il 25 aprile), con suo stile e piglio, interrogandosi retoricamente circa i traguardi raggiunti durante il suo mandato («sette anni difficili per me e per il paese»). L’ultra-conservatore Indro Montanelli titolò sagacemente sul Giornale che la Liberazione giungesse dalla fine della presidenza Cossiga.
Illeso durante l’incidente ferroviario di Piacenza nel 1997, muore nel 2010 e il feretro è coperto dalla bandiera con i quattro mori di Sardegna.
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