- Chi guarda con fiducia alla federazione fra Salvini e Berlusconi nel segno di un conservatorismo soft dimentica che dal 1993 a oggi i partiti hanno raccolto voti con la retorica antisistema e li hanno persi spostandosi al centro.
- Chi, commentando l’ipotesi di federazione lanciata da Salvini, ha sostenuto questa tesi ha probabilmente rimosso dalla mente le immagini culmine della stagione di Tangentopoli, l’anno che vide il ritorno della parola “destra” nel dizionario italiano della politica che conta.
- Il vero problema sembra infatti essere quest’ultimo: le destre in Italia riescono a raggiungere il maggior grado di espansione della propria base di sostegno solo quando indossano gli abiti della protesta anti establishment, a volte antipolitica, in qualche caso antisistemica, e la traducono nei toni tribunizi del populismo.
Ventisette anni non sono pochi, e anche a molti commentatori abituali della politica può riuscire difficile conservare, a così tanta distanza, una memoria precisa di alcuni degli eventi ai quali si è assistito. Se poi, al tempo in cui questi si sono verificati, si era ancora alle prese con i banchi di scuola, il compito è ancora più arduo.
Questo dato può contribuire a spiegare l’insistenza con cui in questi giorni, soprattutto a seguito della proposta di fusione tra Lega e Forza Italia, che Berlusconi ha accolto positivamente ma ha sollevato un putiferio nel suo partito, si è ritornati a parlare, in tono più o meno polemico, di un tema sul quale il passato avrebbe dovuto fornire risposte chiare. Ovvero la possibilità, e secondo alcuni la necessità, della destra italiana – espressione peraltro utilizzata impropriamente, perché dovrebbe essere declinata sempre al plurale, data l’evidente eterogeneità delle componenti dell’area in questione – di imboccare la via di una moderazione dei toni, di un rinnegamento di alcune delle sue radici genealogiche, di un’ulteriore integrazione nel sistema vigente. Una svolta che dovrebbe portarla non solo, come accade ormai da decenni, ad accettare l’impianto istituzionale democratico ma anche, senza sfumature, reticenze o velleità di modifica, la tavola dei valori che le classi politiche di governo, nei settantacinque anni di vita della repubblica, si sono sforzate – e tuttora si sforzano – di radicare nell’opinione pubblica.
Chi, commentando l’ipotesi di federazione lanciata da Salvini, ha sostenuto questa tesi ha probabilmente rimosso dalla mente le immagini del 1993, culmine della stagione di Tangentopoli, l’anno che vide il ritorno della parola “destra” nel dizionario italiano della politica che conta e il sino ad allora imprevedibile decollo elettorale dell’unico partito che aveva accettato di legare le proprie sorti a quella parola malfamata, il Movimento sociale italiano-Destra nazionale, che d’improvviso passò dal limbo del 5 per cento e dintorni entro cui era quasi sempre rimasto confinato a cifre che gli garantivano la conquista in solitudine di decine di amministrazioni comunali e più del 30 per cento dei consensi in metropoli come Roma e Napoli. Dove poi i suoi candidati, al ballottaggio, avrebbero avvicinato il fatidico 50 per cento.
I caratteri della rinascita
Che caratteri avesse, quella rinascita della destra, lo dicono le cronache dell’epoca. Il Msi-Dn, che si era cercato con successo di tenere lontano da ogni coinvolgimento governativo grazie alla formula dell’Arco costituzionale, sotto la guida di Gianfranco Fini aveva sposato con entusiasmo la logica delle “picconate” del presidente Cossiga, lanciato una petizione contro l’immigrazione, organizzato un comizio con Jean-Marie Le Pen, rivitalizzato la formula dell’alternativa al sistema cara a Giorgio Almirante e giocato la carta della piazza, con cortei che inneggiavano alla distruzione della partitocrazia e un simbolico assedio a Montecitorio al grido «arrendetevi, siete circondati».
Quanto alla Lega (Nord), che quasi nessuno ardiva collocare a destra e D’Alema voleva o sognava «costola della sinistra», non era certamente più morbida nei confronti delle istituzioni di «Roma ladrona», dei politici di professione, tutti segnati a dito come mafiosi o corrotti, degli extracomunitari, dei banchieri e di molti altri bersagli polemici. Insomma, le componenti oggi maggioritarie dell’odierno centrodestra, in quella fase esibivano tutti i crismi di una cultura politica che, se non antisistemica nel senso più radicale dell’espressione, era apertamente e convintamente avversa all’establishment. E su quelle basi raccoglieva i favori di quasi la metà dell’elettorato.
Venne poi Berlusconi, con la sua intenzione di “sdoganare” e rendere disponibili per future alleanze governative proprio quelle forze turbolente, e con lui l’inizio di un dibattito che non si è mai chiuso e di tanto riaffiora in superficie a mo’ di fiume carsico sulla possibilità di addomesticare le riottose formazioni di protesta strappandole ad un destino di cronica opposizione e di costruire, per la prima volta nella storia del paese, un “partito liberale di massa”.
La funzione che a questa araba fenice veniva – e tuttora viene – assegnata da coloro che da diverse angolazioni ne auspicavano la nascita era, detto senza gli infingimenti che nuocciono allo studio scientifico dei fatti politici, consentire a chi faticava (e fatica) a digerirla la sopportazione di una destra numericamente sostanziosa ma disegnata secondo le proprie vedute e convenienze, per disinnescarne i tratti ritenuti da ciascuno più sgradevoli o pericolosi.
Il progetto ha assunto, nel corso del tempo, vesti diverse: dalla “rivoluzione liberale” berlusconiana al lavacro di Fiuggi che avrebbe dovuto sancire il transito dal neofascismo missino al postfascismo di Alleanza nazionale; dalle periodiche proposte di fusione dei tronconi della coalizione per sancirne la guida moderata (dal Popolo delle libertà all’odierna ipotesi di accorpamento di Lega e Forza Italia) sino al lavorio interno di esponenti impegnati nello stemperamento di identità e programmi considerati troppo radicali (ieri Fini e Maroni, oggi Giorgetti, con il posto solo temporaneamente vacante in Fratelli d’Italia, a meno di non volerlo assegnare a Crosetto). E in taluni fasi è sembrato funzionare: anche di recente con il fattore Draghi. Ma non ha mai assunto caratteri decisivi e definitivi, né a livello di scelte di vertice, come le prese di posizione radicali di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni hanno a più riprese dimostrato, né, soprattutto, a livello di elettorato.
Il cortocircuito
Il vero problema sembra infatti essere quest’ultimo: le destre in Italia riescono a raggiungere il maggior grado di espansione della propria base di sostegno solo quando indossano gli abiti della protesta anti establishment, a volte antipolitica, in qualche caso antisistemica, e la traducono nei toni tribunizi del populismo.
Come la Lega di Bossi aveva raggiunto i suoi migliori risultati nel nord nel 1996, quando condusse una vigorosa battaglia su due fronti contro «Roma-Polo» e «Roma-Ulivo», così la Lega di Salvini ha oltrepassato la soglia del 34 per cento quando, al governo con i Cinque stelle, asseriva di non riconoscersi più nel binomio sinistra/destra ed enfatizzava soluzioni drastiche ai problemi dell’immigrazione e dell’insicurezza.
Come il Msi-Dn del primo Fini dilagava nelle urne inneggiando alla rivoluzione giudiziaria contro il sistema, così Giorgia Meloni si proietta al di là del 20 per cento reclamando il blocco navale nel Mediterraneo e facendo appello alla protesta delle categorie danneggiate dai provvedimenti restrittivi anti Covid. E puntualmente a questi successi hanno fatto seguito i vistosi cali di quelle formazioni che scelgono basso profilo, moderazione e disponibilità ai compromessi. La parabola di Forza Italia, e prima ancora di Ccd, Cdu, Udc, sta a dimostrarlo.
Ha quindi poco senso – o è mera illusione – pretendere ancora una volta da queste destre, come fanno numerosi commentatori che tengono a mostrarsi neutrali o quantomeno poco ostili, una sostanziale correzione di rotta che le porti a gettare l’ancora nei porti tranquilli del liberalismo o di un conservatorismo soft. I loro argomenti sono spuntati, anche quando sostengono che, se non getteranno a mare i connotati populisti, sovranisti o radicali che per più di un verso ancora le contraddistinguono, non potranno mai essere accettate come interlocutrici credibili negli ambienti che contano e quindi, nel caso in cui andassero al governo, troveranno sul loro cammino continui ostacoli. Il ragionamento non funziona per due motivi.
Primo, perché per andare al governo occorrono prima di tutto i voti degli elettori, e oggi più del 40 per cento di essi è in mano a due partiti che li ottengono perché esprimono radicalità e non moderatismo, e che almeno in parte li perderebbero se si piegassero alla richieste dei loro non richiesti mentori. Secondo, perché gli ambienti che contano, o le élite, o i poteri forti o comunque li si chiami, si riconoscono oggi nella quasi totalità in idee, valori e visioni che confliggono con i punti di vista e le scelte che queste destre esprimono, e le loro diffidenze permarrebbero anche se Meloni e Salvini recitassero le formule di rito che vengono loro richieste (e il leader della Lega, peraltro, lo ha già fatto a più riprese).
Il caso del M5s, del resto, insegna: i voti che il Grillo del Pdimenoelle, del parlamento-scatoletta di tonno e del Vaffa-day aveva copiosamente raccolto, il Di Maio liberale, atlantista ed europeista li ha persi. E difficilmente Conte potrà recuperarli. Questo è l’elettorato italiano. Questa è la società italiana. Non è possibile, per un politico, non tenerne conto.
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