- Vertice fra il segretario Pd, Conte e Speranza. I grillini chiedono che il premier rimanga a palazzo Chigi. Poi a sera la svolta del presidente: «Noi non poniamo veti».
- Il segretario Pd ai chi lo interroga: «Diremo no a Berlusconi ma certo non potremmo votare Pera, Casellati o Moratti», si torna alla casella iniziale. Cioè Draghi.
- Intanto Berlusconi rallenta e resta a Milano. Il vertice del centrodestra è rimandato, forse si terrà domani. Si riunisce invece lo stato maggiore di Fratelli d’Italia. C’è chi spiega: «Siamo tutti d’accordo per un no al secondo mandato di Mattarella».
«Vedi Enrico, vedi Roberto, tutte le ipotesi restano aperte, ma il fatto è che nel movimento ci sono problemi, una parte dei parlamentari non sarebbe, diciamo, entusiasta di votare Draghi». Al vertice dei leader giallorossi, il padrone di casa Giuseppe Conte – questa volta si fa a casa sua, al centro di Roma, per seminare i cronisti, ma la missione fallisce – non può non dichiarare le difficoltà dei suoi a tenere aperte, come dice Enrico Letta, «tutte le ipotesi, senza bruciarne nessuna».
Sottinteso: senza bruciare il premier. Il segretario Pd scandisce bene il concetto: «La protezione di Draghi deve essere l’obiettivo di tutte le forze politiche». Conte però è in buona compagnia. Roberto Speranza, segretario di Art.1, è taciturno per rispetto della sua casacca da ministro della Salute, ma concorda che «la priorità è restare uniti», nel senso dell’alleanza. Però i compagni di Sinistra italiana, componente parlamentare di Leu, ancorché con un pugno di voti, «non voteranno Draghi».
Lo conferma Nicola Fratoianni, che ieri ha visto sia Conte sia Letta e che auspica «di sbrigarsi a comporre questo passaggio perché dobbiamo costruire la coalizione».
Sfuma il bis
Anche il Pd si può rispecchiare nelle parole di Conte. Il segretario è nella stessa sua posizione. I «Draghi resti a palazzo Chigi» li ha contati alla riunione della direzione con i gruppi parlamentari.
Al punto che nel dispositivo sul mandato a trattare, votato alla fine, ha dovuto inserire una formula («garantendo stabilità nell’azione di governo») che nella sostanza dice che il piano A del Pd sarebbe il bis di Sergio Mattarella. Ma l’ipotesi perde quota. Matteo Renzi è freddo: i rapporti con l’ex premier si sono rovinati ai tempi della mozione di sfiducia sull’operato del governatore di Bankitalia Visco (ottobre 2017).
E se Mattarella potrebbe essere il candidato «preferito» per il Cavaliere (copy Vittorio Sgarbi), da Fratelli d’Italia, che ieri ha riunito i suoi vertici, arriva un «no» senza subordinate. Uno dei convocati rivela: «Abbiamo chiesto al centrodestra compattezza anche su questo, abbiamo ottenuto garanzia, siamo tutti d’accordo per un no al secondo mandato». E allora: se dalla destra arriva un no a Mattarella; e se Letta spiega a chi lo interroga «che diciamo no a Berlusconi ma certo non potremmo votare Pera, Casellati o Moratti», si torna alla casella iniziale. Cioè Draghi.
Lo stesso tweet
Dal lato giallorosso, all’uscita i tre leader postano all’unisono lo stesso tweet: «Ottimo incontro», «lavoreremo insieme», «aperti al confronto». Ufficialmente si ragiona solo sulle prime votazioni, scheda bianca o uscita dall’aula.
Ma un minuto dopo da anonimi parlamentari M5s filtra la richiesta «di continuità a palazzo Chigi». Tradotto: no a Draghi. Poi altre «fonti» anonime correggono: «Al vertice non sono stati fatti nomi proprio per lasciare le opzioni tutte aperte», ma la linea è «per la continuità dell’attuale governo». Ritradotto: no a Draghi. Ma la titubanza rischia di lasciare Conte ai margini della partita.
Potrebbe finire in minoranza anche nel proprio partito. I suoi temono che il governo non regga senza l’ex banchiere. Ma anche tra i riottosi si sta allargando il fronte di quelli che vedono l’unica soluzione allo stallo l’elezione di Draghi e il contestuale rimpasto di governo.
Per questo dopo il vertice mattutino, Conte ha un colloquio di un’ora con Luigi Di Maio, da mezzogiorno, dopo che il ministro degli Esteri alla Farnesina ha officiato la cerimonia per intitolare la Sala dei trattati allo scomparso David Sassoli.
Lì, peraltro, scambia qualche parola con Letta. Per Conte l’incontro con Di Maio è necessario per farsi aggiornare sulle sensibilità degli eletti, che il ministro a differenza del presidente conosce bene. Quindi al Tg3 annuncia: «Noi non poniamo veti». Nessun veto sul nome di Draghi,
Stasera è in programma un’assemblea di deputati e senatori. Il presidente deve mostrarsi all’altezza delle trattative in corso. Il coordinamento con il ministro era inevitabile dopo le parole di Goffredo Bettini sul suo conto («Lo vedo in notevole difficoltà. È più un leader di governo che un capo partito»). Ora l’«avvocato del popolo» deve recuperare la fiducia dei parlamentari e convincerli del fatto che è il buon negoziatore dei tempi del governo.
Un problema di numeri
Ma il problema sul nome di Draghi restano i numeri. Chi alla camera tiene il pallottoliere, esclude una elezione prima della quarta chiama. Un paradosso, se si pensa all’ampiezza della maggioranza che lo sostiene a palazzo Chigi. Ma il ragioniere grillino sostiene «che il centrodestra non convergerà inizialmente sul nome del presidente del Consiglio, che Berlusconi si candidi o no».
Una circostanza di cui è cosciente Di Maio, i cui contatti con gli sherpa della Lega non si sono mai interrotti. Il ministro gioca su due tavoli: spinge per Draghi ma allo stesso tempo garantisce sostegno al centrodestra in vista del momento in cui Berlusconi ritirerà la propria candidatura. Dal Nazareno l’interpretazione del vertice è comunque positiva: «Il clima è ottimo. Stiamo valutando tutte le ipotesi», spiega un dirigente vicino a Letta, «il centrodestra non ha un diritto di priorità, come dimostrano i numeri», «cercheremo un nome condiviso con il centrodestra ma la priorità è che noi vogliamo restare uniti. A tutti i costi».
Ma se il centrodestra virasse su Draghi, i costi possono essere alti. In attesa del vertice della destra, che non sarà oggi e sul quale il Cavaliere ha fatto calare una coltre di nebbia, dal Pd le comunicazioni si fanno sempre più rarefatte. Il ministro Lorenzo Guerini tace, ma per alcuni dei suoi la direzione Draghi è ormai inevitabile.
Il presidente dell’Emilia Romagna Bonaccini, si è già messo nell’ordine di idee: «Se Draghi dovesse arrivare al Quirinale, da presidente di regione mi dispiacerebbe, ma il Pd non credo si spaccherà sulla sua elezione». Dall’altro lato, quello del no, le posizioni si sono sentite in streaming. Il senatore Andrea Marcucci ieri ci è tornato su: «Nell’interesse dell’Italia Draghi deve rimanere il presidente del Consiglio». E basta farsi un giro alla camera per incrociare perplessi dem a ogni passo.
«I grillini sono trasparenti, non lo vogliono votare», spiega il primo, area Base riformista. «E anche molti altri non grillini», ironizza chi gli risponde, area Franceschini. Terzo deputato: «Del pressing esterno, che sia il New York Times o il Corriere della sera, non frega niente a nessuno». Il quarto: «L’intendenza non segue se non si risolve prima la questione governo. Capito? Quelli che vogliono Draghi devono risolvere la questione del governo».
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