Il Senato decide oggi sull'ex ministro, accusato di sequestro per aver impedito lo sbarco dei migranti sulla nave di Open Arms. Guida per capire l'assurdità di invocare l'"interesse pubblico"
- Il Senato deciderà oggi sulla richiesta di autorizzazione a procedere da parte del tribunale dei ministri di Palermo nei confronti di Matteo Salvini, accusato di sequestro plurimo di persona aggravato e rifiuto di atti d’ufficio, per aver impedito lo sbarco dei migranti soccorsi dalla nave della ong spagnola Open Arms.
- La linea difensiva dell’ex ministro dell’Interno si basa sull’attribuzione di colpe a Spagna e Malta, alle quali sarebbe spettata l’indicazione del “porto sicuro” dove far sbarcare i migranti, e sulla criminalizzazione del comandante della nave, il cui intento sarebbe stato quello di favorire l’immigrazione clandestina.
- Salvini afferma di aver difeso l’interesse pubblico nell’ambito dell’azione di governo. Il Senato deve valutare se questo interesse avesse più valore rispetto a quello di salvare vite umane.
Ancora una volta il Senato deciderà sulla richiesta di autorizzazione a procedere da parte del tribunale dei ministri di Palermo nei confronti di Matteo Salvini, accusato di sequestro plurimo di persona aggravato e rifiuto di atti d’ufficio: nell’agosto del 2019, l’ex ministro dell’Interno ha impedito lo sbarco dei migranti soccorsi dalla nave della ong spagnola Open Arms, alcuni dei quali minori non accompagnati.
Lo scorso 26 maggio, la giunta per le immunità ha votato contro l’autorizzazione, ma la decisione definitiva compete al Senato. Può essere utile un vademecum per comprendere quanto accadrà in aula. Il primo agosto del 2019, giorno nel quale Open Arms ha effettuato il primo soccorso di naufraghi nella cosiddetta zona Sar (ricerca e salvataggio) libica, l’allora ministro dell’Interno Salvini, di concerto con i ministri della Difesa, Elisabetta Trenta, e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, ha disposto nei confronti della nave il “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale”, avvalendosi dei poteri che gli venivano attribuiti dal decreto Sicurezza bis (poi convertito in legge).
Nei giorni successivi la Open Arms ha operato altri due interventi di salvataggio, uno ancora nella zona Sar libica, l’altro nella zona Sar di Malta. Il 13 agosto i legali di Open Arms hanno presentato al tribunale amministrativo del Lazio un ricorso contro il provvedimento di divieto, che fu sospeso in via di urgenza il 14 agosto. A quel punto la nave ha fatto rotta verso l’Italia, ma non le è stato comunque indicato un porto di sbarco. Il 14 e il 16 agosto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha invitato Salvini ad “adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull’imbarcazione” e, dopo una prima risposta negativa, il 17 agosto il vertice del Viminale ha assicurato che avrebbe dato disposizioni per far scendere i “presunti” minori.
La vicenda si è conclusa il 20 agosto, quando il procuratore di Agrigento ha disposto lo sbarco e il sequestro preventivo d’urgenza della nave, che ha potuto così attraccare a Lampedusa.
La linea difensiva di Salvini
Questi sono i fatti. Gli argomenti difensivi di Salvini si basano soprattutto sull’attribuzione di responsabilità a Spagna e Malta, alle quali sarebbe spettata l’indicazione di un “porto sicuro”, e sulla criminalizzazione del comandante della Open Arms che, rifiutando l’offerta di sbarco – sia pur tardivamente – avanzata da Madrid, avrebbe dimostrato l’intento non di salvare i naufraghi, bensì di operare un traffico di migranti irregolari.
Per valutare queste affermazioni, occorre fare cenno alle regole delle convenzioni internazionali che disciplinano l’obbligo di soccorso in mare e che, essendo norme di rango superiore rispetto a quelle ordinarie (articolo 117 della Costituzione), prevalgono su qualunque disposizione finalizzata a scopi diversi, quindi anche sul decreto Sicurezza bis.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) stabilisce che ogni stato ha il dovere di “prestare assistenza a qualsiasi persona trovata in mare” e “procedere il più velocemente possibile al salvataggio”. A essa si aggiungono la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (Sar), oltre alle linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (risoluzione Msc167-78), adottate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo, agenzia speciale delle Nazioni Unite).
In base alle normative richiamate, gli stati costieri devono predisporre un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso, collaborando con gli stati adiacenti, e a tal fine sono istituite d’intesa zone di ricerca e salvataggio (Sar).Il paese la cui autorità marittima sia stata per prima raggiunta dalla notizia della situazione problematica di una imbarcazione deve coordinare i soccorsi, trasferendo immediatamente il comando al paese responsabile della zona Sar dove è accaduta la criticità; quest’ultimo deve fornire al più presto la disponibilità di un porto sicuro (place of safety, Pos). È solo in un place of safety che le operazioni di soccorso possono dirsi concluse ed è qualificabile come tale un posto dove, oltre a cure mediche e cura dei bisogni primari, sia garantita ai naufraghi la protezione dei diritti fondamentali.
Le regole sui soccorsi in mare sono chiare, ma c’è una zona grigia: esiste una Sar libica, e pertanto la Libia è competente a indicare un proprio porto di sbarco, ma non può considerarsi un posto sicuro. Si tratta di un paese in guerra, che non ha aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nei cui campi di detenzione si verificano gli «indicibili orrori» attestati dall’Onu (e non solo) e la cui cosiddetta Guardia costiera spara ai migranti che provano a fuggire, come successo in questi giorni. Pertanto, quando l’autorità Sar competente nella parte di mare dove avviene il salvataggio è quella libica, il porto in Libia non è un place of safety.
Così, non essendo previsti precisi criteri sussidiari di responsabilità per situazioni come questa, la nave di salvataggio si rivolge ad altri paesi, i quali – pur dovendo collaborare per sollevare da oneri il comandante, come previsto dalle regole internazionali – si “rimpallano” le responsabilità, come avvenuto nella vicenda Open Arms.
Toccava alla Spagna?
Salvini afferma che la competenza a fornire un porto sicuro fosse della Spagna, perché lo stato di bandiera della nave di salvataggio deve essere quello di “primo contatto” e, in quanto tale, deve pure fornire un porto di sbarco. Questa affermazione è errata per due ragioni: l’ex ministro dell’Interno attribuisce al paese di “primo contatto” obblighi che non ha e fa coincidere il paese di primo contatto con lo stato di bandiera. Ma nessuna delle Convenzioni citate attribuisce obblighi concreti allo stato di bandiera delle imbarcazioni di soccorso. Lo stato, qualunque esso sia, che per primo ha notizia di un problema in mare contatta quello che gestisce la regione Sar dove è avvenuta la criticità, ed è quest’ultimo che deve assumersi la responsabilità della gestione dell’evento.
Anche secondo il tribunale di Palermo per individuare il porto di sbarco non assume rilievo la bandiera della nave soccorritrice anche perché questo è “incoerente” con lo scopo previsto nelle richiamate linee guida dell’Imo, l’organizzazione mondiale per le migrazioni: far sì che le persone soccorse possano “raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”. È intuitivo: lo stato di bandiera della nave che effettua il salvataggio potrebbe trovarsi dall’altra parte del globo rispetto a quella dove è avvenuto il salvataggio stesso.
Questo è il motivo per cui non ha fondamento l’accusa alla Open Arms da parte di Salvini, secondo cui il rifiuto dell’offerta di sbarco avanzata dalla Spagna dimostrerebbe che il comandante voleva introdurre migranti irregolari proprio in Italia: i porti indicati (Algeciras, sullo stretto di Gibilterra, e Palma di Maiorca, nelle isole Baleari) erano troppo lontani dalla posizione del natante per essere reputati idonei a tutelare le esigenze previste dalla normativa internazionale, con il minimo disagio per le persone a bordo. E la valutazione circa l’adeguatezza dei porti offerti compete al comandante della nave di soccorso che, ai sensi delle linee guida Imo, deve valutare il luogo di sbarco in relazione alle “circostanze particolari del caso (…) come la situazione a bordo della nave di assistenza, le condizioni meteorologiche, le esigenze mediche e la disponibilità di mezzi di trasporto o altre unità di soccorso”.
Il ruolo di Malta
Inoltre, Salvini sostiene che, in alternativa alla Spagna, l’indicazione di un “porto sicuro” spettasse a Malta. In effetti, i giudici di Palermo affermano che, sino al 14 agosto del 2019, vi fosse un obbligo gravante sia sulle autorità maltesi che su quelle italiane. Peraltro, uno dei salvataggi era stato effettuato in zona Sar maltese, ma quando le autorità dell’isola si erano dette disponibili ad accettare lo sbarco esclusivamente dei 39 naufraghi soccorsi nella zona Sar di competenza, le condizioni meteo erano così critiche che anche la guardia costiera italiana aveva escluso la possibilità di allontanamento della nave, ormai prossima a Lampedusa.
Comunque, il tribunale dice che “l’obbligo di indicare un Pos, a partire dal 14 agosto del 2019, si sia venuto definitivamente a concentrare in capo alle autorità italiane”: in quella data è intervenuta la decisione del Tar che ha sospeso l’efficacia del provvedimento di divieto emanato ai sensi del secondo decreto Sicurezza. La linea difensiva dell’ex ministro ripropone lo schema su cui si fonda il decreto Sicurezza bis: la criminalizzazione delle navi che trasportano stranieri irregolari.
In base all’impianto del secondo decreto di Salvini, le imbarcazioni sono considerate automaticamente colpevoli del reato di traffico di migranti, in quanto il salvataggio sarebbe in realtà una fase del preventivato e intenzionale trasporto finalizzato a favorirne l’ingresso illegale sul territorio nazionale.
In base a tale “presunzione di colpevolezza”, il passaggio in acque italiane di tali imbarcazioni è “non inoffensivo” (Convenzione Unclos) o comunque mette a rischio “ordine e sicurezza pubblica”, e pertanto può essere vietato. Ma l’artificiosità di questa costruzione risulta dallo stesso provvedimento di divieto emanato nell’agosto scorso dall’ex ministro dell’Interno: da un lato, si riconosce “che il natante soccorso da Open Arms (…) – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in ‘distress’, cioè in situazione di evidente difficoltà”, e quindi necessitava di soccorso immediato; dall’altro, si afferma che la sua entrata in acque italiane avrebbe dato luogo a un “passaggio non inoffensivo”, in quanto preordinato a infrangere le leggi sull’immigrazione.
Anche i giudici di Palermo rilevano che questo assunto è illogico, ed è in base a questo che il Viminale ha vietato a Open Arms di portare le persone in salvo.
Cosa deve decidere il Senato
I senatori oggi non devono giudicare se Salvini abbia o meno commesso i reati di cui è accusato dal tribunale di Palermo, ma devono valutare se l’ex ministro abbia agito per la tutela di un interesse dello stato costituzionalmente rilevante, cioè per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo (articolo 9 della legge 1/1989).
Nella relazione difensiva, Salvini ha affermato che le sue azioni sono state orientate alla tutela dell’interesse pubblico “sotto un duplice profilo: da un lato, il controllo e la corretta gestione dei flussi migratori a tutela dell’ordine pubblico; dall’altro, l’osservanza, costituzionalmente imposta, del diritto sovranazionale da parte di tutti gli stati”.
Inoltre, il provvedimento di divieto discenderebbe da “scelte politiche effettuate dall’intera compagine governativa” in vista dell’interesse sopra precisato. Secondo l’impostazione dell’ex ministro, per non essere sottoposto a un processo sarebbe sufficiente dimostrare, come lui dice di aver fatto, che la propria azione era finalizzata a realizzare non un interesse personale o partitico, ma un interesse pubblico inerente all’azione di governo. Ma si tratta di una impostazione errata.
Per evitare l’autorizzazione a procedere non basta riconoscere all’azione ministeriale valenza governativa, in vista di un qualsivoglia interesse collettivo: bisogna valutare se tale azione, che concreta il reato ipotizzato dal tribunale, era inevitabile per salvaguardare un interesse pubblico “preminente”, cioè prevalente sull’interesse sacrificato attraverso quella sua azione.
Quindi, non è sufficiente sostenere che la mancata indicazione del porto di sbarco a Open Arms da parte del ministro dell’Interno rientrasse nell’attività di governo, essendo finalizzata all’interesse pubblico di controllo e gestione dei flussi migratori, anche attraverso una pressione sui paesi europei per la ridistribuzione dei migranti, nonché alla salvaguardia di ordine e sicurezza pubblica “che sarebbero messe a repentaglio da un indiscriminato accesso di migranti”: bisogna provare in concreto che tale interesse giustificasse la privazione di libertà fondamentali di chi era a bordo della nave di soccorso.
La logica del sospetto
Il fatto è che per Open Arms l’ex ministro dell’Interno ha adottato un provvedimento amministrativo di divieto, in spregio ai diritti umani, sulla base del mero sospetto che la nave della ong compiesse un’attività dolosamente preordinata alla introduzione di immigrati irregolari in Italia.
Ancora una volta, come affermato dalla giudice per le indagini preliminari di Agrigento nel caso Sea Watch 3, “il principio della libertà degli stati di regolare i flussi di ingresso nel suo territorio nazionale (espressione di sovranità) non ha rispettato i limiti che lo stato stesso si impone mediante adesione ai trattati internazionali”.
Tra questi limiti, assume rilievo particolare il “dovere di pronto soccorso alle navi in difficoltà e di soccorso ai naufraghi e l’obbligo, in capo alle autorità statali, di soccorrere e fornire prima assistenza, allo straniero che abbia fatto ingresso, anche non regolare, nel territorio dello stato”. E se un ministro nega l’entrata in porto a una nave che ha effettuato soccorsi in acque internazionali, rendendo impossibile valutare se le persone a bordo abbiano diritto a protezione internazionale, vìola anche il principio di “non respingimento” (Convenzione di Ginevra) e il divieto di espulsioni collettive (Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
A fronte di tutto questo, il “preminente interesse pubblico” che Salvini afferma di aver perseguito cede il passo a diritti di tutt’altra “preminenza”. Chi ha avuto la pazienza di leggere fino a questo punto lo avrà forse compreso: chissà se il parlamento ne terrà conto.
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