Il prolungamento al 31 dicembre pare scongiurato. Ma il problema resta, perché sono i decreti legge approvati nei mesi scorsi a permettere al governo di limitare le libertà costituzionali
- Il presidente del consiglio Conte aveva annunciato l’intenzione di una proroga a tutto il 2020 dello stato di emergenza imposto già a gennaio per gestire la pandemia. Dopo le proteste, l’ipotesi pare tramontata.
- Le attività ordinarie sono riprese e una seconda ondata di contagi da Coronavirus non sarebbe un evento imprevedibile: non sembrano quindi esserci i presupposti per la proroga dello stato di emergenza. In ogni caso, l’ordinamento già prevede strumenti per affrontare “ordinariamente” le urgenze
- Ricondurre allo stato di emergenza gli ampi poteri esercitati da Conte nei mesi scorsi è però una “narrazione” tranquillizzante: il presidente del Consiglio è andato ben oltre quanto previsto da quel quadro giuridico e conserva il potere di limitare le libertà dei cittadini sulla base dei decreti legge approvati durante la pandemia.
Pare ormai chiaro che lo stato di emergenza, in scadenza il 31 luglio, non sarà prorogato. Il timore era che il suo prolungamento – accennato dal presidente del consiglio Conte nei giorni scorsi – mantenesse la strada ancora spianata a provvedimenti limitativi di diritti garantiti costituzionalmente, come accaduto nei mesi passati.
Questa “narrazione”, che impera nel dibattito pubblico, non ha fondamento giuridico.
La dichiarazione dello stato di emergenza legittima poteri di ordinanza per intervenire operativamente in situazioni di criticità, non i pieni e ampi poteri esercitati dal presidente del consiglio nei mesi scorsi: essi discendono, invece, da decreti legge del governo. Detto ciò, in punto di diritto vi sarebbero i presupposti necessari per procrastinarne la scadenza? Per rispondere, serve prima capire cos’è lo “stato di emergenza”.
Il codice della protezione civile (d. lgs. n. 1/2018, art. 7) divide le emergenze, connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell'uomo, in: a) quelle che possono essere affrontate in via ordinaria dai singoli enti e amministrazioni competenti; b) quelle che comportano l'intervento coordinato di più enti o amministrazioni, disciplinate e coordinate dalle Regioni; c) quelle che “in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento”, essere fronteggiate a livello nazionale. La pandemia rientra in quest’ultima area.
Lo stesso codice prevede che, al verificarsi degli eventi - attuali o imminenti - di cui alla lettera c), il Consiglio dei ministri deliberi lo stato d’emergenza, determinandone l’estensione territoriale e fissandone la durata (12 mesi, prorogabile per non più di 12 mesi).
La dichiarazione di tale stato serve a far sì che la Protezione civile possa operare l’ “insieme, integrato e coordinato, delle misure e degli interventi diretti ad assicurare il soccorso e l'assistenza (…) e la riduzione del relativo impatto, anche mediante la realizzazione di interventi indifferibili e urgenti…” (art. 2).
Dunque, la dichiarazione dello stato di emergenza attiene alla gestione amministrativa e operativa delle criticità. In Italia essa è avvenuta il 31 gennaio scorso, a seguito della dichiarazione di emergenza internazionale per il Coronavirus dell’Organizzazione mondiale della sanità (30 gennaio), con delibera del consiglio dei ministri, che ha attribuito i relativi poteri di ordinanza al capo del dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli, fino al 31 luglio.
Oggi ci sono i presupposti per la proroga oppure lo stato di emergenza può dirsi superato?
La risposta sta nel citato Codice: “Il superamento dell'emergenza consiste nell'attuazione coordinata delle misure volte a rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita e di lavoro, per ripristinare i servizi essenziali (…), oltre che alla ricognizione dei fabbisogni (…), nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive…” (art. 2, c. 7). E questa del superamento è la fase in cui l’Italia si trova attualmente: sono ripartite le attività economiche, come quasi tutto il resto, si sta definendo la riapertura delle scuole.
Se vi fosse la seconda ondata di contagi che gli esperti sono concordi nell’ipotizzare, probabilmente di portata più lieve rispetto alla precedente, il prolungamento dell’attuale stato non potrebbe servire? Proprio perché gli scienziati ne parlano da settimane e si ha già l’esperienza della prima ondata, non si tratta di un pericolo dalla portata imprevedibile, per cui occorra stare ancora in emergenza.
Si sa cosa ragionevolmente aspettarsi e, avendo avuto tutto il tempo necessario, si suppone sia stato apprestato quanto occorre: del resto, ormai tutti sanno che con il virus bisogna convivere.
Dunque, la situazione - che nei mesi scorsi era straordinaria - è ormai sostanzialmente ordinaria: pertanto, non ci sono i presupposti per la proroga dello “stato di emergenza”, e cioè del conferimento alla Protezione Civile di particolari poteri di intervento, di acquisto di materiale e di tutte quelle azioni che servono per far fronte a eventi inattesi.
Lo stato di emergenza non è stato di prevenzione – altrimenti l’emergenza dovrebbe essere permanente – e lo stato di diritto appresta strumenti “ordinariamente” precauzionali, per azioni rapide in situazioni di bisogno.
Il codice degli appalti, per esempio, prevede l'aggiudicazione senza previa pubblicazione del bando di gara, tra l'altro, in casi connotati da urgenza (art. 63) e permette, “in circostanze di somma urgenza che non consentono alcun indugio”, l'immediata esecuzione dei lavori o di quanto indispensabile per rimuovere uno stato di pregiudizio (art. 163).
E se dovessero servire “zone rosse”, misure di contenimento o limiti di altro tipo?
Esiste il potere del ministro della Salute di emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica, con efficacia estesa all'intero territorio nazionale o a parte di esso; e analogo potere spetta al presidente della giunta regionale e del sindaco, con efficacia estesa rispettivamente alla Regione o a parte del suo territorio (l. 833/1978, art. 32). E non si dimentichi lo strumento del decreto-legge, da usare in situazioni di “necessità e urgenza” (art. 77 Cost.), e non solo per legittimare interventi (ancora più urgenti?) del presidente del consiglio.
C’è pure il parlamento, anche se ormai si tende a scordarlo: dato che una seconda ondata di contagi è stata prevista da settimane e con il virus bisogna convivere, “nelle more” il parlamento avrebbe potuto, e ancora potrebbe, elaborare una legge che fissi deroghe e paletti per tali situazioni, sulla falsariga di quella tedesca.
Dunque, sgombrato il campo da equivoci circa lo stato di emergenza, appare palese che i poteri esercitati da Conte, estesi al punto tale da restringere libertà e diritti anche coperti da “riserva di legge” o da sostanziare, ad esempio, la sfera affettiva delle persone (vedi alla voce “congiunti”), non hanno base giuridica nelle norme che regolano tale stato - come la “narrazione” sopra richiamata vorrebbe - ma su decreti legge emanati dal governo a partire da fine febbraio.
Infatti l’emergenza fu dichiarata dal consiglio dei ministri il 31 gennaio, ma quasi nessuno se ne accorse, proprio perché da essa non discendono “pieni poteri”, ma poteri di ordinanza della protezione civile per le criticità. Inoltre, né la delibera dello stato di emergenza, né il codice della protezione civile, in base a cui esso viene dichiarato, sono mai formalmente richiamati nei decreti legge e nei Dpcm (decreti della presidenza del consiglio dei ministri) dei mesi scorsi.
Allora perché tanti affermano che tale stato abbia legittimato i pieni/ampi poteri del Presidente del Consiglio?
Forse la ragione è che l’accentramento di enormi poteri in Conte è avvenuto non solo con il consenso di una larga parte di italiani - basti rammentare la crescita del suo gradimento nei sondaggi – i quali hanno accettato acriticamente la stretta a diritti e libertà perché “la salute prima di tutto”; ma anche con il placet di coloro i quali - pur avendo ruoli, competenze e mezzi per stigmatizzare le lacerazioni del diritto che si andavano producendo – hanno taciuto per non disturbare il “manovratore”.
Quando, tra febbraio e marzo, cioè nel periodo fra il primo e il secondo decreto legge (n. 6 e n. 19), i “pieni poteri” tanto temuti si sono concretizzati, pochi hanno fatto pressione per l’uso di strumenti normativi adeguati; la motivazione trasparente della necessarietà e proporzionalità dei Dpcm rispetto all’evolversi della situazione sanitaria; il chiarimento dei criteri utilizzati allo scopo di bilanciare i diversi interessi in gioco.
Adesso che la paura sanitaria è passata finalmente si comprende che, aperta la strada ai Dpcm, con poteri enormi al presidente del consiglio, ciò potrebbe ripetersi in futuro per qualunque situazione reputata critica dal governo pro tempore. E allora si prova a far rientrare il dentifricio nel tubetto, imputando strumentalmente l’espansione dei poteri del vertice dell’esecutivo alla delibera formale dello “stato di emergenza”, sì che senza di essa (e senza la sua proroga) non sarebbe successo (e non succederà) niente. È una “narrazione” tranquillizzante, ma che – come spiegato – in diritto non regge, né ricuce lo strappo ormai compiuto.
E cosa dire del passaggio della decisione dell’eventuale proroga in parlamento? Anche su questo punto si sta facendo confusione.
Il passaggio in parlamento per spiegarne i motivi sarebbe un atto di trasparenza, ma la proroga avverrebbe comunque con delibera del consiglio dei ministri (ai sensi del codice più volte citato): non con legge o con decreto-legge da convertire in parlamento, come qualcuno sta dicendo, forse sempre per provare a far rientrare il famoso dentifricio nel tubetto, inducendo false convinzioni circa un ruolo determinante di tale consesso.
Serve spiegare le cose come stanno, senza narrazioni allarmanti, per un verso, e rasserenanti, dall’altro: “conoscere per deliberare” non è un vezzo.
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