In questa prima fase, il governo di Giorgia Meloni sembra ormai strutturato per giocare una partita su due fronti.

Il primo è interno al cosiddetto centrodestra, attraversa le interazioni complesse tra le tre forze alleate al governo e si nutre delle tensioni che lacerano i due partiti minori della coalizione. Senza Berlusconi e Salvini, leader ridimensionati ma ancora indispensabili, il parlamento diventa incontrollabile, ma facendo cadere il governo le due leadership rischiano l’autocombustione.

Nemici interni ed esterni

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In quest’ottica vanno lette le nomine di Antonio Tajani e Giancarlo Giorgetti rispettivamente agli Affari esteri e al ministero dell’Economia e delle Finanze. Facendo da argine alle ambiguità dei loro leader rispetto a Putin o all’Italexit, i due ministri occupano due posti assolutamente centrali per la tenuta del patto tecnosovranista, garantendo un allineamento atlantico sull’Ucraina, la continuità con l’euro e la costruzione europea.

Va qui notato che Giorgetti e Tajani sono due “secondi” che possono probabilmente sperare di diventare i “primi”, a condizione di sopravvivere agli choc e di fare durare il governo. La posta in gioco è quindi l’egemonia di un gruppo dirigente sulla destra italiana che può proporre di rilanciare un ciclo politica di lungo periodo.  

Il secondo fronte, apparentemente più classico, sembra strutturato attorno alla dialettica governo/opposizione intorno a un asse destra/sinistra. In realtà però, almeno in questa prima fase, bisogna analizzare con più attenzione la dimensione reale dello scontro.

Con la nascita del governo Meloni si è parlato molto del ritorno della politica dopo un decennio di governi tecnici e populisti. La premier rivendica la sua lunga militanza, il governo si presenta come un governo politico di centrodestra, una sorta di Berlusconi IV, malgrado cinque ministri tecnici, alcuni dei quali in posti chiave (Interno, Lavoro, Sanità…).

Ma questo governo non è un semplice ritorno all’èra Berlusconi o alla seconda repubblica. Il contesto politico resta fondamentalmente definito da un impianto emergenziale: se la pandemia sembra ormai ridimensionata, la tripla crisi che minaccia l’Italia e l’ordine europeo (guerra, inflazione, energia) riproduce la stessa neutralizzazione tecnica che aveva caratterizzato il decennio passato. Le scelte politiche sono limitate dalla necessità e dai vincoli, l’efficacia diventa più importante dell’opportunità o della coerenza con la linea.

L’egemonia degli apparati 

Foto Cecilia Fabiano /LaPresse 28-11-2022 Roma, Italia - Cronaca - Presentazione del Calendario della Polizia di Stato alla presenza del ministro degli interni Matteo Piantedosi Nella Foto : Lamberto Giannini ,Franco Gabrielli November 08 , 2022 Rome Italy - News - Presentation of the Calendar of the State Police in the presence of the Minister of the Interior Matteo Piantedosi In The Photo : Lamberto Giannini ,Franco Gabrielli

È proprio questo elemento che permette a un partito di estrema destra come Fratelli d’Italia di governare proponendo una continuità istituzionale che sembrerebbe altrimenti paradossale e che resta ancora sospesa a molti interrogativi, come lo mostrano alcune delle prime azioni del governo. In questo senso la sua scommessa resta in realtà ancora molto interna alle logiche del controllo dell’establishment.

Sostanzialmente per Meloni e il suo governo si tratta soprattutto di distruggere l’equazione che aveva governato il ciclo politico precedente e che prevedeva una sostanziale continuità tra le istituzioni economico-politiche e il Partito democratico. Su questo fronte, la posta in gioco è l’egemonia sugli apparati.

Si tratta insomma di proporre alle molteplici forze che compongono gli ingranaggi del potere contemporaneo di sfilarsi dal consenso progressista liberale che aveva condotto all’espansione vertiginosa della mondializzazione, per adattarsi a una nuova fase fatta di frammentazioni anche violente, di grandi blocchi in competizione, nella logica di una guerra estesa dal commercio, al diritto fino all’ecologia e al digitale.

In Italia, in particolare, si tratta di mettere fine a un’eccezione dovuta al berlusconismo e soprattutto alla fine rovinosa di Berlusconi nel ciclone della crisi economica, riportando il baricentro dello stato dal centrosinistra al centrodestra, in continuità con la maggior parte della storia italiana. In questo l’azione del ministro degli Interni è assolutamente paradigmatica: facendo portare da prefetto di lungo corso l’azione esecutiva, il governo Meloni propone alle forze che avevano vissuto con fatica la convergenza istituzionale con il Pd un’alternativa credibile.

Strutturare il consenso

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L’azione combinata su questi due fronti, che presentano ciascuno difficoltà evidenti, traccia una prospettiva di fondo. L’autonomia molto ridotta nel breve periodo del governo Meloni può diventare più ampia se un ciclo più lungo si apre. ll controllo reale della macchina dello stato, tra nomine e organizzazione dell’informale, può contribuire a strutturare un consenso volatile in un periodo in cui, come lo ha scritto Helen Thompson, una delle più sottili studiose della politica contemporanea: «La crisi e non la crescita è la nuova norma e la realtà del mondo sta distruggendo i luoghi comuni della politica partigiana e le ambizioni di carriera a un ritmo sempre più rapido».

Il viaggio di Meloni a Bruxelles è stato in questo senso esemplare. Malgrado le tensioni interne legate alle prime misure del governo molto contestate anche da una parte del establishment, l’offensiva di charme è un successo evidente. In cui la continuità con Draghi era rivendicata in modo quasi ossessivo dopo essere stata preparata durante la campagna elettorale e i negoziati per la formazione del nuovo governo.

Così una figura di primo piano dell’eurocrazia mi spiegava che «se il primo contatto è così positivo, così agevole è perché Meloni ha saputo fare prova di pragmatismo, anche mettendo in primo piano il tema della sovranità europea, cara al presidente francese Emmanuel Macron». Meloni avrebbe persino sostenuto che di fronte alle sfide tecnologiche, energetiche, militari, dobbiamo rafforzare la Nato ma agire autonomamente da Europei quando gli interessi non sono allineati. Insomma, al di là di ogni possibile divergenza politica, «la verità è che in Europa affrontiamo problemi comuni epocali, e abbiamo la necessità di lavorare insieme in modo pragmatico».

La sfida per la sinistra

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È questa la sfida principale per il Pd che deve reinventarsi dopo un decennio in cui, anche a spese di un consenso forse più ampio e mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza, ha scelto di diventare la stampella della repubblica.

La sfida è interna all’establishment, ma non può essere posta solo in questi termini. La domanda in realtà è: come fare per proporsi come una forza di sinistra e di governo?  Per quanto l’alternativa netta tra le parole e le cose sia spesso banalmente qualunquista, bisogna che la sinistra riprenda a pensare di cambiare la società, non solo il linguaggio. Per questo deve cominciare a pensare le sfide del contemporaneo, territorializzandole e pensando su scale diverse: dalla regione al continente.

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