La prima presa di distanza della Lega sull’azione di governo è il segno di un problema che va al di là della tenuta di Draghi e delle polemiche fra partiti della maggioranza. Ad affondare nelle sabbie mobili è il parlamento
- Lo strappo di Salvini e i tormenti dei Cinque stelle paralizzano l’azione non del governo ma delle camere. Il destino del ddl Zan è solo l’esempio delle sabbie mobili. I dubbi del Pd.
- Il parlamento del tempo «in cui le sue funzioni si sono largamente ridotte» rischia di non riuscire a affrontare l’agenda necessaria a preparare il rilancio del paese e la prossima legislatura, quella con le camere dimagrite.
- L’irrilevanza di fatto delle camere che si accontentano del compito della conversione dei decreti-legge del governo.
Il primo strappo della Lega con Palazzo Chigi è il segnale di un problema che va al di là della tenuta del governo e delle polemiche fra partiti della maggioranza. Mercoledì sera Matteo Salvini ha impartito ai suoi ministri l’ordine di astenersi sul decreto riaperture. Si tratta di un fallo di reazione per uno scontro diretto nella destra. Il leader leghista deve constatare dai sondaggi che il suo partito paga l’appoggio a Draghi, e che Giorgia Meloni ne raccoglie i frutti. Nonostante l’irritazione del presidente del Consiglio, l’azione di governo non ne risentirà, anche se il Pd ne ha tratto l’occasione per sospingere l’alleato ai margini della maggioranza. È invece il parlamento a rischiare di affondare nelle sabbie mobili.
Olre il Pnrr
È questo il senso del discorso pronunciato ieri mattina da Luigi Zanda nell’aula senato durante il dibattito sul Def. Il ragionamento del senatore parte dalla frattura per un’ora di lockdown in meno: «Il governo era compatto, un partito di maggioranza no». Ma spinge il ragionamento oltre la contingenza, anche oltre la vicenda pure cruciale dell’approvazione del Piano nazionale di resilienza e ripresa, fino al ruolo del parlamento, «in un tempo nel quale le sue funzioni si sono largamente ridotte».
Zanda parla, e non è la prima volta, di «una sorta di stato di eccezione permanente» – lo aveva già fatto a fine anno scorso, c’era ancora il governo Conte – in cui «necessariamente il governo assume più forza». Ma il punto è un altro: ed è «il margine che resta al parlamento per legiferare su questioni diverse dai provvedimenti anticongiunturali del governo». O, meglio, il margine che il parlamento vorrà darsi.
Il discorso si svolge al Senato, l’indirizzo immediato è la presidente Casellati, e infatti Zanda prende spunto dalle parole che il giorno prima il capogruppo leghista Romeo aveva pronunciato per evitare di discutere il ddl Zan contro l’omofobia. Per Zanda il dibattito «è vitale», per Romeo è «divisivo» quindi va evitato. Ma la vicenda dice di più: «Da mesi il senato lavora a scartamento ridotto, come se vivessimo in un altro mondo, tranquillo e lontano dai drammi del mondo reale. La partita si gioca tutta tra la società italiana e il governo e di questa partita il parlamento è spettatore privilegiato, ma pur sempre spettatore», dice Zanda.
Il senatore la prende alta: nell’Europa post-Brexit e con l’uscita di scena della cancelliera Merkel, la camera alta italiana dovrebbe affrontare il grande tema del futuro: l’Europa e la democrazia. Parla di Erdogan – si schiera con Draghi – e della conferenza mondiale sulla democrazia annunciata da Biden, «La sfida tra le democrazie e i sistemi autoritari finirà non con un compromesso, ma solo con vincitori e vinti». In Italia, «c’è la grande questione del riassetto dei poteri dello Stato, del parlamento e del governo», «le pietre angolari traballanti del nostro sistema istituzionale», «la nostra Costituzione deve scegliere tra bicameralismo perfetto, bicameralismo differenziato e monocameralismo; tra parlamentarismo all’italiana, semipresidenzialismo alla francese e cancellierato alla tedesca. Significa che dobbiamo esprimerci su cosa resti del XXI secolo, della divisione dei poteri e dello stato di diritto. «Occuparcene, oggi, è il primo dovere del parlamento, non del governo». E invece il parlamento «non solo ha perso gran parte del suo potere legislativo, ma ha anche rinunciato ad aprirsi ai grandi confronti politici che potrebbero dar forma al suo ruolo di indirizzo sulle prospettive del paese». Il rischio è che ormai le camere si accontentino «del pur rilevante compito della conversione dei decreti-legge del governo».
Verso il semestre bianco
Questioni di lungo respiro, verrebbe da concludere. Ma ci sono anche questioni immediate, urgentissime. Ad agosto scatterà il semestre bianco. E’ facile prevedere che, esclusa per legge la possibilità di andare al voto, le forze della maggioranza marcheranno le loro distanze in attesa dei giorni della scelta del prossimo presidente della Repubblica.
In autunno ci saranno le amministrative, un passaggio necessariamente conflitturale per le forze della maggioranza di Draghi. Insomma il tempo stringe: ci sono da varare riforme indispensabili, quelle che servono al Pnrr ma anche la legge elettorale e i correttivi che preparano il prossimo voto politico e il funzionamento del parlamento con il nuovo numero di eletti (il superamento della base regionale per l’elezione del senato in favore di quella circoscrizionale; la riduzione dei delegati regionali che partecipano all’elezione del capo dello stato). Ma le forze politiche più grandi sono affaccendate in altro.
La Lega è impegnata nella sfida per l’egemonia bella coalizione con Fdi; i Cinque stelle si dimenano nella faticosa riorganizzazione del movimento del dopo-Grillo e del dopo-Rousseau. Due vicende che si riverberano nell’azione del governo, ma soprattutto nell’inazione del parlamento.
Nel Pd ora si fa avanti la consapevolezza che se le camere non ingranano presto la marcia di un calendario di riforme, al di là di quelle che propone Palazzo Chigi, il rischio è la paralisi e il nulla di fatto.
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