- Il mantra “uno vale uno” risale agli inizi del Movimento. È stato coniato da Gianroberto Casaleggio ed è entrato nell’immaginario comune dei Cinque stelle come lo slogan “onestà”, gli insulti contro i “pidioti”, la “guerra contro i vitalizi” e gli indimenticabili “vaffa”.
- Quel che sicuramente non è rimasto uguale è il rapporto tra vertici e attivisti, ma anche tra vertici ed eletti.
- Ancora nel 2019 gli eletti avevano detto la loro sia sulle elezioni in Umbria (dove il M5s si era presentato in coalizione) e sulle regionali in Emilia-Romagna e Calabria (decidendo che i Cinque stelle avrebbero corso nonostante la “pausa elettorale” proposta da Di Maio).
Il Movimento 5 stelle doveva essere il campione della democrazia diretta. Cosa resta oggi della massima “uno vale uno” non è chiaro: ultimamente è stata smentita nel metodo, con un complicato giro di parole dell’ex presidente del Consiglio e leader in pectore Giuseppe Conte, e nei fatti con la strategia dei vertici sulle amministrative nelle grandi città, che sta tenendo ai margini, se non escludendo, gli attivisti.
Il mantra “uno vale uno” risale agli inizi del Movimento. È stato coniato da Gianroberto Casaleggio ed è entrato nell’immaginario comune dei Cinque stelle come lo slogan “onestà”, gli insulti contro i “pidioti”, la “guerra contro i vitalizi” e gli indimenticabili “vaffa”. L’”uno vale uno” era addirittura l’inizio del ritornello del non molto fortunato inno del Movimento, scritto da Leonardo Metalli e Raffaello Di Pietro e intitolato L’urlo della Rete – Uno che vale uno. La “taranta del web” continuava con versi altisonanti come: «Uno che Vale Uno niente e nessuno la Rete fermerà/tanti noi siamo in tanti se stiamo uniti la vita/ cambierà».
I cambiamenti
Quel che sicuramente non è rimasto uguale è il rapporto tra vertici e attivisti, ma anche tra vertici ed eletti. Già nel 2012, in realtà, uno non valeva più esattamente uno nel caso dell’ex consigliere comunale di Ferrara Valentino Tavolazzi, espulso (fu il primo in assoluto) per una riunione sulla democrazia interna al Movimento. Quando successivamente Federico Pizzarotti – uno dei primi sindaci Cinque stelle, che poi ha lasciato a sua volta il partito – lo ha voluto come direttore generale del suo comune per le sue competenze, la sua nomina è stata impedita dai vertici del M5s, Beppe Grillo e lo stesso Casaleggio.
Non era andata benissimo neanche qualche anno dopo, nel 2014, quando la creazione di un direttorio a cinque (tra l’altro creato senza l’elezione dei membri da parte degli attivisti ma lasciando loro solo la possibilità di approvare o respingere una decisione già presa) aveva provocato critiche pesanti da parte di quelli che all’epoca erano considerati “dissidenti”. Lo stesso Pizzarotti aveva twittato un velenoso «Uno vale»: l’uno è chiaramente Grillo, l’unico la cui opinione conta.
“Uno vale uno” è stata una questione dibattuta anche in tanti casi di espulsioni seguite a quella di Tavolazzi. Le epurazioni spesso sono state perentorie, senza contraddittorio, dall’alto.
Cosa ne rimanga oggi, dunque, sembra essere ben poco: certo, negli anni le consultazioni sono continuate su Rousseau, spesso con quesiti formulati in maniera confusionaria o tendenziosa. Lo stesso garante del Movimento è arrivato a commentare «siamo tra comma 22 e la sindrome di Procuste» in un tweet. L’ultima volta che si sono espressi gli iscritti è stato per avallare la creazione del governo Draghi. Il quesito conteneva già la risposta preparata dai vertici: impostare il voto suggerendo che la Transizione ecologica tanto desiderata dal M5s sarebbe stata possibile solo con la creazione del governo non era il modo più sofisticato per far credere agli attivisti di contare ancora qualcosa.
Ma anche a livello di riorganizzazione interna, gli iscritti non mettono più bocca da parecchio.
Come nel caso del colpo di testa di Grillo, che ha di fatto ribaltato la decisione votata dagli attivisti di creare un nuovo direttorio che ora sarà solamente la segreteria di Conte, imposto da Grillo, che sarà legittimato con un voto a fine mese sulla nuova piattaforma.
Ma lo stesso discorso vale per le amministrative d’autunno: le decisioni sono state prese ai vertici e sono cadute addosso agli attivisti. Come è successo a Napoli, dove la decisione di allearsi col Pd non è mai stata avallata dagli attivisti locali, o a Bologna, dove prima di esporsi a sostenere Matteo Lepore del Pd l’avvocato del popolo non ha trovato neanche un attimo per incontrare attivisti ed eletti del territorio, o ancora a Torino, dove sembra che le primarie che avrebbero dovuto selezionare il candidato sindaco tra i due consiglieri comunali in corsa molto probabilmente non si terranno.
La versione di Conte
Ancora nel 2019 gli eletti avevano detto la loro sia sulle elezioni in Umbria (dove il M5s si era presentato in coalizione) e sulle regionali in Emilia-Romagna e Calabria (decidendo che i Cinque stelle avrebbero corso nonostante la “pausa elettorale” proposta da Di Maio).
Chi sembra ancora avere fede granitica nel principio è Conte, che nell’ultima intervista televisiva a Di Martedì ha detto che «tutti devono avere possibilità di partecipare alle decisioni fondamentali». Una versione un po’ diversa del motto delle origini, anche perché, si precipita a precisare Conte, «uno e l’altro non sono uguali se ricoprono un incarico pubblico, perché richiede capacità e competenza».
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