- Malumori tra i deputati dem per la linea del segretario Letta che rimanda le decisioni sulla partita del Colle. Intanto gli altri si muovono, e la prosecuzione dell’esperienza del governo Draghi non è più così garantita
- Voci dal Pd del “zitti-tutti” sul prossimo capo dello Stato: «Il segretario prenda un’iniziativa con tutta la maggioranza». Altrimenti il governo sarà comunque a rischio. Chiunque vada o resti a Palazzo
- Nel frattempo, Mattarella dice no al secondo mandato e mette a tacere il dibattito
«Vogliamo che Mattarella resti al Colle e che Draghi resti a palazzo Chigi? Ma allora proviamo a vedere se è possibile, prendiamo un’iniziativa. C’è invece una strada sicura per consegnarsi alle manovre di Matteo Renzi. Ed è quella che stiamo percorrendo fin qui: non fare nulla.
Chi non fa nulla non va da nessuna parte. Va bene chiedere di non parlare di Quirinale fino a fine anno. Ma non muoversi fino a fine anno è un suicidio». La conversazione si svolge a Montecitorio, una delle scorse mattine. La riapertura del Transatlantico rende di nuovo orecchiabili ai cronisti i discorsi dei capannelli dei deputati.
Qui si tratta di un gruppo di parlamentari dem radunati intorno a un ministro di una corrente diversa dalla propria. Scambiano qualche battuta a proposito della consegna del silenzio che Enrico Letta ha impartito ai suoi. Letta esce dall’aula e sfila nel corridoio parallelo.
Malumori nel Pd
A taccuini chiusi, in questi giorni è facile raccogliere lamentele di questo tenore fra eletti dem di entrambe le camere. Ieri Andrea Marcucci ha disobbedito consegnando a Tpi la sua opinione: «Per come stanno le cose, ora certamente all’Italia Draghi serve più a palazzo Chigi che non al Quirinale». Che è quello che si dice anche nei «capannelli anonimi».
Da dove però ci si interroga sul perché Letta non si muove e non prende un’iniziativa per capire se è possibile che la strana maggioranza di governo abbia una proposta unitaria per il Colle. Anche perché per due volte (fin qui) si sono uniti i puntini di una maggioranza destre+Iv in alternativa a quella di Pd+Leu+M5S: la prima volta al senato, a voto segreto, il 27 ottobre sulla legge Zan, la seconda alla camera, a voto palese, lo scorso 10 novembre su due ordini del giorno sulla giustizia.
Nei giorni del G20 a palazzo Chigi è arrivato il presidente Usa Joe Biden, ma anche il segretario di Stato Antony Blinken, il ministro del Tesoro Janet Yellen e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. L’occasione c’era. Ma si tratta di un’attenzione inedita, almeno a memoria di anziani funzionari di palazzo. Motivo in più per trattare il dossier con tutta la concentrazione del caso.
Il governo comunque balla
Difficile immaginare che la maggioranza di governo si ricomponga dopo essersi spaccata sul voto del capo dello Stato. Su quel momento circola una ridda di voci: Draghi si dimette all’inizio di gennaio, alla conferenza di fine anno annuncia la messa in sicurezza dei conti del paese; che va al Colle e l’ex ministra Paola Severino al suo posto, e il ministro Daniele Franco resta all’economia.
Per il Colle rimbalzano i nomi di Pier Ferdinando Casini, Giuliano Amato, Sabino Cassese e Paolo Gentiloni (che ieri Letta ha incontrato a Bruxelles). In ogni caso, e al netto del totonomi, il governo rischia. Se salta lo schema che tiene unita la maggioranza, ovvero se la maggioranza si contrae, salta. Chiunque sia – o resti – a palazzo Chigi. È già successo il 31 gennaio 2015 con la (prima?) elezione di Sergio Mattarella. Forza Italia, che non lo votò, dichiarò chiuso il patto del Nazareno e il governo rimase in piedi solo grazie alla scissione di Denis Verdini.
La road map di Letta
La road map di Letta invece sembra muovere da altri blocchi di partenza. Il segretario ha ripetuto pubblicamente in questi giorni che a valle delle scissioni, e a fronte dei sondaggi che vedono il partito sopra il 20 per cento, in parlamento il Pd pesa «per il 12 per cento». «Bisogna costruire solidi fili di dialogo con tutte le forze parlamentari perché il capo dello Stato deve essere garante di tutti», viene spiegato al Nazareno.
Traduzione libera: per togliere centralità a Renzi, prendere un’iniziativa con il leader leghista può non bastare, è necessario coinvolgere anche la valanga dei parlamentari M5s. Primo step, consolidare i gruppi Pd grazie anche allo stretto rapporto fra Letta e le capogruppo Malpezzi e Serracchiani – si paventa la presenza di un drappello di fedeli a Renzi, cinque-sei al senato e altrettanti alla camera, pronti a seguirne le iniziative proprio al momento del voto per il Colle –; secondo step, rinsaldare il legame con Giuseppe Conte ma anche quello con Luigi Di Maio.
Qualsiasi maggioranza parte dunque dalla compattezza di Pd e M5S. Anche se in questo parlamento il tema delle divisioni interne si pone ormai anche per la Lega e per Forza Italia.
Non che la tenuta del governo non venga considerato un problema. Ma a prescindere dalla permanenza di Draghi a palazzo Chigi: è un fatto l’appannamento dell’azione di Draghi nelle ultime settimane, dal rallentamento della legge di bilancio al rinvio delle decisioni sulla direttiva Bolkestein nel decreto concorrenza, causa i guai interni alla Lega. Stando così le cose, dall’elezione del nuovo capo dello stato, chiunque sia eletto, l’avvio della campagna elettorale sarà nelle cose.
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