Euromomentaccio per il Pd, all’indomani dell’accordo sulla Commissione. Elly Schlein, che pure aveva sempre sostenuto che invotabile era l’allargamento a destra della maggioranza von der Leyen, e non il nome dell’italiano Raffaele Fitto, alla fine ha dato il via libera, di fatto, all’inclusione di Ecr. Un sì che apre la strada alle maggioranze variabili sui diversi provvedimenti. Ma non poteva fare diversamente dopo che erano arrivate le raccomandazioni di Sergio Mattarella, Romano Prodi e Mario Monti.

Ora da destra piove l’accusa di essersi dovuta piegare al «capolavoro» politico della premier; e pure di essere antitaliana per non aver immediatamente sbattuto i tacchi davanti a Fitto. «Accuse ridicole», risponde il capodelegazione dem a Bruxelles Nicola Zingaretti, «Fitto ha potuto svolgere un’audizione dialettica sui contenuti ma assolutamente rispettosa dell’Italia», piuttosto è stata la spagnola Ribera a essere «aggredita politicamente dal Ppe», i socialisti hanno posto «un grande tema», «una grande contraddizione».

Un prezzo alto

Ma per il Pd è impossibile nascondersi che il prezzo del sì è alto. Mercoledì mattina il gruppo S&d si è spaccato a metà. L’intervento diretto del premier spagnolo Pedro Sánchez per chiudere l’accordo e salvare la “sua” commissaria Ribera – ha anche telefonato a Schlein – ha di fatto costretto il Pd a silenziare il malumore. E non è detto che al momento del voto, in mezzo alla slavina di defezioni socialiste, innanzitutto francesi e tedesche, non ne arrivino anche dalla delegazione dem.

Il documento di Ppe, S&d e liberali che ribadisce tutti i punti programmatici della Commissione, quelli di luglio – avanti sul Green Deal, rispetto dello stato diritto, sostegno alla riforma dei trattati e cancellazione del diritto di veto, su quest’ultimo la destra è contrarissima – «è la piattaforma ottima per dimostrare che non c’è, nel programma, un’apertura alla destra: ma a patto che la presidente l’assuma come sua», spiega Brando Benifei. Cosa che però fin qui non è successa.

E si torna al punto di partenza: il Pd, il prossimo 27 novembre a Strasburgo, voterà una Commissione che avanza verso destra. A cui infatti gli alleati M5s e rossoverdi voteranno no. «Vigileremo», assicura ancora Zingaretti, «le contorsioni di dire sì alla Commissione, ma non al programma che lo sostiene, non appartengono al campo del centrosinistra». Sono del Ppe, intende. E del commissario italiano, spiega Peppe Provenzano alla Camera: «Fitto ha espresso posizioni che contraddicono molte delle linee politiche portate avanti dalla presidente del Consiglio in campagna elettorale. Si è impegnato a perseguire l’interesse europeo non solo nel rispetto dei trattati, ma seguendo le linee guida presentate a luglio dalla presidente von der Leyen, che includono la difesa dello stato di diritto, soprattutto nei confronti di Paesi come l’Ungheria di Orbán, la protezione del Green Deal da arretramenti richiesti anche dal governo italiano, e la salvaguardia del pilastro sociale europeo».

Anche il presidente della Puglia Michele Emiliano, che è stato un instancabile sostenitore di Fitto fra i dem, a La7 ha raccontato così «la cosa straordinaria» che è avvenuta: «Fitto si è rassegnato all’idea di governare l’Europa con il Pd, che lo ha aiutato in tutti i modi possibili perché sapevamo che attorno alla Meloni c’erano molti di peggio».

Se Atene piange, Sparta non ride, dunque. Il Pd «verificherà le scelte sul campo», insiste Provenzano, ma il problema è anche a destra, forse soprattutto: «Nessuno rileva che un governo che rivendica come un successo la Commissione sorvoli sul fatto che la seconda forza politica della sua maggioranza gli vota contro: faccio notare che cinque anni fa per un tema simile saltò il governo». Parla dell’estate del 2019, del Papeete, quando la Lega non votò la prima Commissione von der Leyen, che invece M5s votò: «Si illudono di coprire con la propaganda la loro divisione, ma al dunque la pagheranno».

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