-
All’indomani del naufragio in Grecia, per il Viminale «l’obiettivo rimane lo stop alle partenze illegali»
-
Sul fronte europeo, «il successo del governo Meloni è la sua centralità sulla questione migratoria»
-
Il decreto Ong è servito a «mettere ordine», il ministro glissa invece sulla cancellazione del reato di tortura
A destra della scrivania del ministro Matteo Piantedosi al Viminale c’è una televisione seminascosta. Durante l’intervista rimane accesa e muta nel suo angolo. Scorrono le immagini del naufragio in Grecia e Piantedosi getta veloci occhiate per seguire l’aggravarsi della situazione in quel tratto di mare, di cui anche le autorità italiane erano informate: «Le giornate al Viminale si complicano velocemente».
Avellinese doc, cordiale e misurato, considerato da molti la faccia feroce del governo di destra, di persona risulta assai meno rigido di come appare in pubblico. Sceglie con attenzione le parole, ogni tanto cade in un lessico che tradisce i suoi trentacinque anni di carriera da prefetto. Mai si irrigidisce davvero, spesso sottolinea che «altre visioni sono legittime», ma sull’obiettivo del suo mandato non ammette fraintendimenti: «Bisogna fermare i flussi irregolari».
Ministro, la tragedia dei migranti morti in Grecia riporta alla mente le immagini di Cutro. Anche in questo caso si aprono incognite sui soccorsi dopo l’allarme. Ci risiamo?
Ci sarà modo e tempo per capire cosa è successo nell’area Sar Greca. Ho piena fiducia nelle autorità elleniche. Ho letto da fonti giornalistiche che l’imbarcazione si sarebbe ribaltata proprio durante le operazioni di soccorso. Di fronte a tragedie così dolorose andrebbero evitati giudizi sommari e strumentalizzazioni.
Si torna a parlare di responsabilità, è cambiato qualcosa in Italia dopo Cutro?
Negli ultimi venti anni ci sono stati innumerevoli naufragi prima di Cutro in varie parti del Mediterraneo. Questa ennesima tragedia conferma che i trafficanti di esseri umani fanno affari in maniera spregiudicata con totale disprezzo della vita dei migranti che sono esposti a rischi inaccettabili. L’Italia, insieme agli altri partner europei, sta lavorando per contrastare i trafficanti di esseri umani e rafforzare i canali di immigrazione regolari: uomini e donne che devono arrivare soltanto in maniera legale, sicura, pianificata, con strumenti di programmazione adeguati come il decreto flussi.
La strage in Grecia ripropone l’aumento dei flussi di sbarco in estate. Come si sta muovendo il governo?
Sui flussi migratori si stanno iniziando a cogliere timidi segnali incoraggianti rispetto alle previsioni pessimistiche di inizio anno. I dati dimostrano un rallentamento delle partenze dal nord Africa. Sappiamo però che il complesso lavoro che stiamo facendo è destinato a produrre effetti significativi nel più lungo periodo.
Eppure la missione tunisina della premier Giorgia Meloni insieme a Ursula von der Leyen per incontrare Kais Saied non ha prodotto gli esiti sperati di un accordo.
Non condivido la sua lettura. La missione ha avuto innanzitutto il merito di mostrare plasticamente l’importanza del lavoro che sta svolgendo il presidente Meloni anche in ambito europeo. La visita in Tunisia con la presidente della Commissione Ue dimostra che il nostro paese si sta ritagliando un ruolo centrale per l’attuazione di politiche di sostegno e sviluppo nel nord Africa e nel corridoio mediterraneo. È la visione italiana del “piano Mattei”, con un approccio non predatorio nei rapporti con i paesi africani, che presuppone accanto alla collaborazione per frenare le partenze, anche un forte sostegno economico-finanziario. Questo è un grande successo del governo Meloni.
Intanto, però, le tragedie in mare continuano e per ora la misura principale del governo è stata il decreto Cutro, che ha introdotto la norma decisamente complicata da applicare del reato universale per gli scafisti.
In realtà proprio il cosiddetto decreto Cutro, da alcuni tanto criticato, ci ha permesso di rendere più ordinata la gestione della prima accoglienza, affinché tutto avvenga con doverosa umanità per le persone che arrivano. In questo modo affrontando anche le comprensibili preoccupazioni di chi teme che gli arrivi massicci creino complicazioni sui territori. Il governo si sta muovendo su questi due fronti: gettare le basi perché la collaborazione internazionale aiuti a fermare le partenze e nel frattempo organizzarsi sul territorio per gestire chi arriva.
L’obiettivo dello stop alle partenze sembra realizzabile vista l’entità dei flussi migratori e le ragioni che li causano. Lei rimane convinto?
Le confermo che per il governo fermare – o quantomeno limitare il più possibile – le partenze indiscriminate e illegali è sempre l’obiettivo principale. Nella consapevolezza, però, che si tratta di un obiettivo non sempre immediatamente a portata di mano. Per questo, intanto, è necessario gestire al meglio gli arrivi evitando, come già detto, ricadute problematiche sul territorio. Ricordo che il governo con il decreto approvato a Cutro ha ribadito il principio di offrire canali di ingresso regolare ai migranti per garantire in sicurezza gli arrivi.
La questione migratoria solleva sia interrogativi pratici che questioni di approccio. Lei è stato molto criticato per la formula «carico residuale» per i migranti che inizialmente non erano stati fatti sbarcare da una delle navi ong. Lo ridirebbe?
Premetto che le mie frasi sono state in molti casi decontestualizzate e ritagliate ad arte. Tuttavia, capisco che la contrapposizione politica può portare a ricorrere anche a queste strumentalizzazioni. Le rispondo che per me parlano gli atti: contano la storia personale e ciò che si è fatto. Non credo si possa parlare di disumanità nei confronti di un paese che a partire dall’inizio dell’anno ha soccorso e dato accoglienza finora a 56 mila persone.
E lei ritiene di aver agito in modo corretto?
La correttezza dell’azione di governo è testimoniata dal fatto che alcune delle norme approvate a Cutro hanno anticipato in ambito europeo le norme contenute nel Patto asilo e immigrazione.
Dice che parlano i fatti, il governo sta migliorando le condizioni dell’accoglienza?
L’evidenza è Lampedusa: confronti come è ora la struttura, rispetto a come era ridotta solo due mesi fa. Tante anime candide del passato non si sono mai preoccupate delle condizioni in cui versavano i luoghi di prima accoglienza, che gestiscono picchi di migliaia di persone. Anche questo è stato possibile con il cosiddetto decreto Cutro, che ha introdotto procedure di emergenza per dare speditezza agli iter amministrativi con cui rafforzare il sistema di accoglienza.
L’altro decreto varato dal governo è il decreto Ong, che contiene regole stringenti. Pensa che le navi non governative siano un ostacolo?
Noi non pensiamo che le ong siano un ostacolo, abbiamo ritenuto che servisse mettere ordine. Le missioni di salvataggio in mare sono una cosa molto seria e c’è in gioco la vita delle persone, per questo non è possibile gestirle in modo deregolato e magari anche con accenti di contrapposizione nei confronti di chi poi, secondo le norme internazionali, ha la responsabilità ultima della missione. Mi sembra tutto molto logico: Infatti, dopo che lo abbiamo fatto noi, ora anche in Europa si comincia a parlare di regolamentazione delle navi private.
E le sembra logico anche che una nave ong possa procedere a un solo salvataggio e poi debba rientrare in porto?
Ma la missione che si sono date le ong non è quella di recuperare i naufraghi e portarli al più presto in un luogo sicuro? Prima del nostro codice, c’erano casi di navi che rimanevano in mare anche diverse settimane prima dell’approdo. Ritengo logico e razionale che l’evento di soccorso debba essere aperto e chiuso.
La percezione è che sia un tentativo vessatorio per ridurne l’attività.
Io non credo che si possa permettere la prassi di recuperare più migranti possibili a prescindere dalle condizioni di sicurezza in cui lo si fa. Noi abbiamo ritenuto necessario regolamentare la materia senza alcun intento vessatorio ma solo per renderla più coerente con la missione di soccorso delle persone.
C’è poi il fatto di averle indirizzate in porti progressivamente sempre più lontani dalle acque di recupero, per esempio a Ravenna. Anche in questo caso non ci sono intenti di disincentivo?
La motivazione è quasi banale: abbiamo indicato i porti di quasi tutte le regioni italiane, nell’ottica di favorire una equa distribuzione degli sbarchi su tutto il territorio nazionale. Sicilia e Calabria sono la principale destinazione degli sbarchi autonomi con i barchini. Per dare un aiuto al decongestionamento dei luoghi di primo approdo naturale, abbiamo stabilito che gli sbarchi delle ong vadano redistribuiti. Non vedo cosa ci sia di strano.
Nel tempo, il governo ha archiviato la logica dei porti chiusi. Quindi c’è stato un ripensamento sulla sua correttezza?
C’è stata una evoluzione di approccio, perché la pressione migratoria è crescente e variabile nelle sue caratteristiche. Ma io considero il pragmatismo una nota di merito sia per me come ministro che per il governo: significa che abbiamo seguito il fenomeno e abbiamo adeguato le politiche per affrontarlo. Tutto questo non cambia il punto: per noi i flussi irregolari vanno fermati o comunque ridotti il più possibile, perché dietro si nascondono i trafficanti di esseri umani e i loro loschi affari che sono portati avanti senza nessun rispetto per la sicurezza dei migranti, esposti a rischi rilevanti.
La dimensione del fenomeno però supera l’Italia, ma a livello europeo non si sono percepiti passi avanti significativi.
Non è vero. Il negoziato dell’8 giugno è stato un punto importantissimo. Si è trattato di una discussione, in cui l’Italia ha avuto un ruolo centrale, che ha visto un salto di qualità, perché il lavoro non si tradurrà in semplici dichiarazioni di intenti, ma in atti normativi. Abbiamo gettato i presupposti per riscrivere le regole formali, che poi entrano nella vita degli ordinamenti europei e rimarranno nei prossimi anni.
Tradotto in concreto, cosa produrrà?
Siamo ancora in un contesto di negoziazione, ma intanto l’Italia ha ottenuto la condivisione di un principio basilare che è anche alla base del nostro agire: l’obiettivo finale è quello di ridurre se non fermare le partenze irregolari, distinguendo chi ha diritto ad arrivare e chi no. Infatti il patto si chiama di “asilo-immigrazione”.
Rimane un obiettivo decisamente complicato da raggiungere. La redistribuzione non è in cima all’agenda, quindi?
Bisogna chiarire. Il nostro governo ritiene che se arrivano migranti irregolari è giusta una logica di distribuzione degli oneri a libello europeo, ma l’obiettivo è sempre quello di bloccare gli sbarchi irregolari. La differenza è con chi ritiene ineluttabile e anzi auspicabile l’arrivo di irregolari pensando che la questione migratoria si risolva con la redistribuzione.
Venendo a vicende interne, i pestaggi da parte dei poliziotti di Verona hanno riportato in primo piano il tema delle violenze delle forze dell’ordine. L’indagine avviata è per il reato di tortura, che la sua maggioranza vuole abolire in parlamento. Lei condivide l’iniziativa?
Anche qui va chiarito il punto fondamentale. Il dibattito parlamentare si sta sviluppando sui contorni, sulla definizione, sulle caratteristiche del reato di tortura. Ma nessuno mette in discussione il disvalore di certi fatti e tantomeno il reato di tortura in quanto tale. Nessuno immagina che fatti come quelli di Verona possano essere legittimati o derubricati.
Abolirlo vorrebbe dire far rientrare quei comportamenti in fattispecie molto più lievi, come le lesioni. Sarebbe sufficiente?
Le ripeto che nel governo nessuno vuol far sì che la tortura come comportamento in sé non sia opportunamente perseguito e sanzionato oltre che prevenuto. Il parlamento è libero ed è in corso una legittima discussione. Come ministro, il mio obbligo è capire come sia potuto accadere che dentro la polizia dello Stato si siano verificati fatti di quel tipo, anche se fosse uno solo. Chi è in divisa è responsabile due volte: per la lesione dei diritti delle vittime ma anche dell’immagine del corpo a cui appartiene.
Si discute anche dell’ipotesi di un numero identificativo per i membri delle forze dell’ordine, così da renderli riconoscibili in caso di fatti violenti. Lei è d’accordo?
Penso che sia un dibattito ideologico e fine a sé stesso. Il codice identificativo è inutile perché l’identificazione di chi ha commesso violazioni è sempre avvenuta.
Non è stato così al G8 di Genova e nemmeno nel caso dei pestaggi in carcere a Santa Maria Capua Vetere tutti i poliziotti della penitenziaria ripresi sono stati identificati.
A me sembra che i processi siano in corso e nel caso di Genova abbiamo i nomi dei condannati, con responsabilità oggettive individuate anche nella dirigenza. Dunque non parlerei di impunità. Se penso anche alle varie manifestazioni di ordine pubblico, non ricordo casi in cui i fatti censurabili non siano poi stati ricondotti al responsabile.
Dunque l’introduzione di un numero identificativo non dovrebbe essere un problema.
Io credo che non ci sia alcuna necessità di farlo. Chi propugna una misura del genere mostra una visione di ideologica sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine. Peraltro non bilanciata da misure che per converso offrano strumenti di tutela per lo svolgimento di un lavoro tra i più difficili. Se si guarda alle statistiche consolidate, sono le forze di polizia a registrare il maggior numero di feriti e vittime in occasione di scontri nelle manifestazioni di ordine pubblico.
Lei usa un lessico molto specifico e la si accusa di essere troppo burocratico, è colpa del suo passato da prefetto?
Ci sono opinioni divergenti, alcuni dicono che io finga di essere un prefetto ma in realtà sono molto politico, altri invece che io sia eccessivamente burocratico. Ognuno è figlio della sua storia personale, io ho fatto il prefetto per 35 anni e questo ha inciso, nel bene e nel male.
Si definisce un ministro politico o tecnico?
Fare il ministro è di per sé un ruolo politico a prescindere da dove si proviene. Il salto da un ruolo tecnico a uno politico risiede nel fatto che, da ministro, si devono fare scelte di fondo per dare una direzione e una visione al proprio operato. Ed è quello che cerco di fare.
A proposito di politica, la scomparsa di Silvio Berlusconi ha un impatto nel centrodestra e c’è il rischio che uno dei tre alleati, Forza Italia, imploda. Va rivista la geografia interna alla maggioranza?
Lo dico vivendo dall’interno le dinamiche del governo: non prevedo effetti sull’esecutivo o sulla maggioranza, né nel breve né nel lungo periodo. Berlusconi con la sua intuizione politica ha fondato il centrodestra italiano, così come rappresentato dal governo attuale. Per questo non vedo rischi di instabilità. Berlusconi era un leader con caratteristiche uniche che lo rendono insostituibile. Ha lasciato un patrimonio politico e ideale solido, che prescinde dalla necessità di far subentrare un “successore”.
Meloni ripete che il suo governo durerà cinque anni. Per cosa le piacerebbe essere ricordato, al termine della legislatura?
Non credo per un singolo progetto, perché il Viminale è una amministrazione che vive soprattutto la gestione della quotidianità. Lei tornerà a dirmi che parlo da prefetto, tuttavia le rispondo che mi piacerebbe, quando tutto questo finirà, che di me si possa dire che ho ricoperto il mio incarico con responsabilità, dignità e onore.
© Riproduzione riservata