Nonostante la certezza della bocciatura, la Lega non ha ritirato l’emendamento in commissione. La conferenza delle regioni ha chiesto un incontro al governo, segno che il capitolo non è chiuso
«Nessuna spaccatura», ha tuonato Matteo Salvini dopo che l’emendamento per introdurre il terzo mandato ai presidenti di regione è stato bocciato. La Lega ha ritirato solo l’emendamento sul terzo mandato ai sindaci e ha mantenuto quello sulle regioni, anche a costo di vederlo affondare 16 a 4 in commissione Affari costituzionali al Senato.
Il testo non ha ricevuto però il parere negativo del governo, così che tutto il peso della decisione è rimasto formalmente in carico al parlamento. «Nessuna spaccatura», hanno ripetuto anche Wanda Ferro e Maurizio Gasparri, dopo che i loro partiti – Fratelli d’Italia e Forza Italia – hanno votato insieme alle opposizioni e contro l’alleato di governo.
Parole che suonano più come un auspicio, visto che cozzano contro la realtà dei fatti. «Nessun riflesso sul governo», ha aggiunto il ministro per i Rapporti col parlamento, Luca Ciriani, che nei giorni scorsi aveva chiesto apertamente il ritiro dell’emendamento e ieri ha fatto trasparire in modo netto la posizione del partito della premier Giorgia Meloni: «Eravamo disponibili a discuterne con più calma. L’accelerazione ha portato a questo risultato».
Tradotto: la Lega era stata avvertita e ha voluto lo strappo. I rapporti tra FdI e il partito di Salvini sono più tesi che mai, nonostante i visi sorridenti e le frasi di circostanza di mercoledì, sul palco di Cagliari dove i tre leader della maggioranza hanno chiuso la campagna elettorale del candidato del centrodestra alle regionali di domenica in Sardegna.
Quel che è certo è che Salvini ha guidato i suoi verso una Caporetto annunciata e la domanda giusta, probabilmente, non è perché lo abbia fatto ma cui prodest? A chi giova? La risposta è: a Salvini stesso, nell’ottica di una strategia più ampia.
Cui prodest?
Andare alla rottura in commissione è un primo netto cambio di passo della Lega: sui temi che considera caratterizzanti, è pronta a differenziarsi dalla linea di Meloni anche facendo emergere in modo plastico le divisioni della maggioranza. Un messaggio indiretto per dire che la Lega c’è e non è domata. A dirlo chiaramente è stato il ministro per l’Autonomia, Roberto Calderoli, da sempre architetto di riforme e limatore di emendamenti, che in un’intervista a Repubblica ha spiegato che «non possono imporsi limiti alla scelta democratica», altrimenti la Lega proporrà il limite dei due mandati anche per il parlamento.
Una sfida al rilancio che ha fatto poco piacere a Meloni, che ha chiesto ai suoi di non polemizzare con l’alleato, ripetendo il mantra di «nessuna spaccatura» o, ancora meglio, restando in silenzio.
Il tema dei territori, però, è diventato vitale per Salvini: molti dei suoi amministratori locali sono al limite dei mandati – Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e anche Attilio Fontana (anche se è appena stato rieletto) – e la Lega deve dare un segnale agli elettori che si sta battendo per loro. Tanto che, come ha aggiunto il senatore veneto Paolo Tosato, «per noi la partita non è chiusa» e «ripresenteremo le nostre proposte».
Un posizionamento utile in vista delle europee dove territori e preferenze peseranno in modo determinante e la Lega, che al sud raccoglie poco, ha l’imperativo di sfondare al nord.
Il nodo Zaia
Come emerge da ogni frase che riguarda il terzo mandato, il vero nodo riguarda il Veneto e la ricandidatura di Luca Zaia, capace di venire rieletto per il secondo mandato con un plebiscitario 74 per cento di cui il 44 raccolto dalla sua lista personale.
Il mandato di Salvini ai suoi di tenere duro facendosi bocciare l’emendamento è servito come un segnale: «Si è fatto tutto il possibile, ma il veto è venuto da FdI che punta ad accasarsi in Veneto», dice una fonte leghista. Del resto sono note da mesi le manovre dei meloniani in regione: il deputato Luca de Carlo, dell’ala che fa capo a Francesco Lollobrigida, parla già da candidato in pectore e sottotraccia si sta muovendo anche la consigliera regionale Elena Donazzan, del gruppo di Adolfo Urso. Anche dentro la Lega, se nessuno intende cedere il Veneto («si candiderà un altro leghista», ha assicurato il vicesegretario Andrea Crippa nelle scorse settimane), non tutti sono concordi con un tris di Zaia. Altri nomi ci sarebbero, come il sindaco di Treviso, Mario Conte.
Salvini nella scorsa riunione federale ha pressato il governatore per scendere in campo alle europee sentendosi rispondere di no e anche così si spiegherebbe l’accelerazione verso la bocciatura dell’emendamento: mostrare al Doge che non ci sono altre strade possibili per lui. Ma le possibilità di una sua candidatura vengono considerate ancora scarse e l’effetto potrebbe essere un boomerang per Salvini. Zaia, infatti, potrebbe mettersi in mente di competere per la segreteria leghista, soprattutto nel caso di un pessimo risultato alle europee.
In questo groviglio di interessi che hanno come terminale le elezioni europee e le regionali, in bilico non c’è solo il futuro di Zaia e a svelare una possibile contromossa dei governatori uscenti è stato il ligure Giovanni Toti. Le leggi elettorali sono materia complessa e «la Costituzione prevede che gli statuti e le leggi elettorali siano competenza esclusiva delle regioni», ha ricordato su Canale5. Quindi, è il sottinteso, le regioni potrebbero cambiare autonomamente il vincolo dei due mandati, se la loro maggioranza in consiglio glielo consente e salvo poi il probabile contenzioso davanti alla corte Costituzionale.
A dimostrare la serietà del tema cavalcato dalla Lega e il fatto che la grana per Meloni non sia chiusa è il fatto che la Conferenza delle Regioni ha chiesto un incontro con il governo sul terzo mandato: destinatario della lettera, il ministro leghista Roberto Calderoli.
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