- La morte di David Sassoli e la dipartita del premier Mario Draghi chiudono formalmente una stagione d’impegno cattolico laico e moderato. Per alcuni, l’assenza di cattolici risente della mancanza di rappresentanti e riferimenti culturali.
- Dopo il francescanesimo annacquato di Grillo e i roboanti slogan identitari di Meloni a Marbella, la recente diatriba tra Salvini e il quotidiano dei vescovi Avvenire mostra un rifiuto, da parte cattolica, di un uso della religione a fini politici.
- Se per taluni è il fronte moderato di Letta a rappresentare il nuovo cattolicesimo sociale, fuori e dentro la chiesa c’è chi auspica si abbandonino le battaglie ideologiche nel nome del dialogo, in consonanza con il pontificato di Francesco.
Che fine hanno fatto i cattolici in politica? I primi a chiederselo sono i cattolici stessi. Che siano i laici autorevoli che lo scorso anno firmavano il rapporto-manifesto Il gregge smarrito oppure i 5/7 milioni di praticanti stimati da Alberto Melloni, è evidente che l’emergenza pandemica prima, geopolitica poi, non ha reso il pontificato sociale per eccellenza l’alveo di una classe politica italiana, cristiana per tradizione.
Un silenzio reso ancora più sinistro dal fatto che alcuni eredi di mezzo secolo di Democrazia cristiana tuttora costellano partiti più o meno grandi. L’età dell’orfanezza per i cattolici, già in nuce ai funerali di David Sassoli, si è ora materializzata con la dipartita del premier Mario Draghi, tecnico di formazione cattolica ed espressione del cattolicesimo moderato agli antipodi di quello che il politologo gesuita Francesco Occhetta ha definito «cultura populista che si traveste da Robin Hood mentre agisce con le intenzioni dello sceriffo di Nottingham, strumentalizzando il popolo che ha la responsabilità di avergli affidato una delega in bianco».
E se, dal palco del Meeting di Rimini, il ministro uscente della Lega, Giancarlo Giorgetti, s’inalbera contro la «cara, vecchia Europa il suo sistema economico e alcune regole che sono controproducenti» nella guerra commerciale con la Russia, per Occhetta il clima d’incertezza politica nostrano è, piuttosto, riflesso di «un’area moderata sempre più orfana di appartenenza, di rappresentanti e di riferimenti culturali».
Era inevitabile che in uno spazio consono come il Meeting di Cl a questa diagnosi infausta si accompagnasse un invito a reagire, come l’appello del presidente della Corte Costituzionale, Giovanni Amato, ai 4 milioni di italiani impegnati nel sociale e in attività di volontariato: «Assumete voi questo ruolo […]. Dedicatevi alla politica, rivitalizzate la democrazia».
Pochi giorni prima, era stato il fondatore della comunità sant’Egidio Andrea Riccardi a lanciare un appello dalle colonne del Corriere della Sera: «La Chiesa è la più grande rete sociale nel paese. Lo si è visto durante il Covid e nei momenti di faticosa coesione sociale. C’è in Italia una Chiesa del fare, del credere, del pregare, dell’intreccio di legami sociali, che è ancora una risorsa civile di valore». Ma come si unisce il nerbo di una missione agli incerti orizzonti politici?
Un cristianesimo di facciata
Con l’approssimarsi delle elezioni, era prevedibile che i toni accesi della campagna elettorale infiammassero i simboli della tradizione. Sotto il solleone agostano, infatti, gli slogan Credo di Matteo Salvini sono stati oggetto di una severa reprimenda da parte del teologo don Giuseppe Lorizio su Avvenire.
È stata poi la volta del direttore Marco Tarquinio: «Affermare “credo” ovunque, ma in particolare in un paese di straordinaria tradizione cattolica come l’Italia, è espressione che reclama coerenza e non resta mai senza conseguenza, anche laiche, cioè civiche e civili». Il botta e risposta sull’utilizzo politico dei simboli cristiani esprime, d’altro canto, la ricerca di quei principi comuni che costituiscono l’ossatura dei credenti laici.
Perché se è vero che non basta un Matteo Salvini in camicia bianca e tao al collo per avocare a sé un francescanesimo già annacquato dalle marce assisiati di Grillo, è altrettanto vero che il silenzio dei cattolici moderati rischia di trasformarsi in un vuoto destinato a essere riempito anche con un cristianesimo di facciata, aggressivo e nazionalista, come già sta accadendo nell’ascesa del partito spagnolo Vox, caro alla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni.
Una chiesa chiusa
Certo, non mancano critiche a parte di una gerarchia cattolica che fatica a sgravarsi dalla nostalgia per la Cei di Camillo Ruini: un peccato di anacronismo in cui rischia di cadere anche chi, in politica, vuole rianimare la Dc: eppure, su questo stesso giornale un ex esponente di spicco dell’Udc come Marco Follini invitava a non rimpiangere troppo quella stagione «dato che il passato è passato».
Potrebbe anche esser vero che «gli ecclesiastici non sono tutti dei geni politici», come ha scritto Melloni su Repubblica, ma è altrettanto eloquente quanto detto da Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, su quelle stesse pagine: «La gente comune sente e comprende che gli steccati e gli scontri di vecchie o nuove ideologie non servono. Ha voglia di sentire, discutere di come essere aiutata a fare un figlio, di come accudire un amore anziano».
Parole importanti dopo il pasticcio vaticano alla vigilia dell’affossamento del disegno di legge Zan contro l’omolesbobitransfobia, da accoppiare a quanto scrive Andrea Riccardi sul Corriere: «Oggi la Chiesa sembra vivere parecchio dentro il quadrato ecclesiastico, nonostante gli inviti di papa Bergoglio a uscire, mentre i vescovi stentano a prendere la parola […]. Spesso i discorsi ecclesiali non parlano alla vita comune».
Non è un caso che entrambe le voci provengano dalla comunità di sant’Egidio, l’Onu trasteverina che ha dato i natali al neo-presidente della Cei, Matteo Zuppi: coordinate programmatiche di «una idea di chiesa dell’amore e dell’accoglienza che è il filo rosso dell’esperienza pastorale di Zuppi», come ha scritto il democratico Walter Veltroni.
Un cattolicesimo sociale
Per Roberto Napoletano, direttore del Quotidiano del Sud, il Pd di Enrico Letta è l’espressione più compiuta di un nuovo cattolicesimo sociale, concorde al pontificato di Francesco: «Stiamo parlando di un leader serio e affidabile, uno degli eredi migliori della tradizione cattolica capace di dialogare con il mondo laico più intelligente».
Ma per un acuto osservatore del panorama cattolico come Marco Invernizzi, il silenzio dei cattolici italiani ha una genesi culturale: mancano occasioni di riflessione e il rischio di annacquare il cattolicesimo è molto alto fuori dalle mura leonine.
Dello stesso avviso la docente Maria Prodi, che su L’Adige scrive: «Per una specie di coazione a fare il contrario la sinistra si è sentita a battersi non contro l’incoerente strumentalizzazione del sacro e del religioso da parte della destra, ma contro quella etica diffusa la cui demolizione si doveva più al consumismo televisivo che al progresso sociale […]. Ne è uscita una narrazione più individualistica che comunitaria, più focalizzata sulla autodeterminazione assoluta del singolo che sulle reciprocità e responsabilità dei legami relazionali e sociali».
L’auspicio dei cattolici che oggi, a vari livelli, stanno facendo sentire la loro voce è che la politica non prenda scorciatoie, ma si metta in ascolto della sua complessità in primis, perché senza ascolto non può esserci dialogo.
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