Fallaye Dabo aveva appena finito di pregare. I suoi occhi si erano fermati ad ammirare le prime luci dell’alba che già illuminavano le campagne della Capitanata. Un saluto ai suoi compagni, un ultimo sguardo a quella che era da poche settimane la sua casa, e che casa non era.

Una vecchia masseria abbandonata, un fornello per riscaldare il cibo, i bidoni con l’acqua per lavarsi, un materasso a terra per dormire.

Fallaye Dabo era un bracciante di colore, uno dei tanti che legano la loro vita all’andamento delle stagioni dei prodotti agricoli. Braccianti invisibili sono anche i suoi compagni, che lunedì di buon mattino, Fallaye saluta per l’ultima volta prima che si disperdano per i campi alla ricerca della “giornata”.

Anche lui si incammina verso la campagna, e con una meta precisa nella testa. Un vecchio albero di ulivo. E lì, sotto quella pianta, che i suoi compagni lo ritrovano dopo ore. Ha una corda stretta al collo.

Nel ghetto della Capitanata

Fallaye Dabo, 28 anni, qualche foto che lo ritrae sorridente, veniva dal Mali a cercare la fortuna in Italia, le poche notizie che lo riguardano raccontano di lui arrivato come tutti in Italia con un barcone. Dicono che era andato al Nord a cercare fortuna. Forse aveva trovato un lavoro precario per un salario da fame. E come fanno tanti altri disgraziati come lui, aveva deciso di spostarsi al Sud, in Puglia, in quel grande ghetto a cielo aperto che è la Capitanata.

La provincia agricola più estesa d’Italia con i suoi 500mila ettari coltivati. Terra ricca di pomodori, ortaggi e frutta che per essere raccolti richiedono braccia. Ma con salari da fame e condizioni lavorative da sfruttamento selvaggio.

Tra poco nelle campagne di questa parte della Puglia inizierà la raccolta degli asparagi. E gli “invisibili” corrono. Perché - si legge in E(U)xploitation, il rapporto sul caporalato nell’Europa mediterranea dell’associazione Terra -  serve un alto numero di lavoratori.

«Il bracciante taglia a mano il frutto mentre siede su una macchina facilitatrice che compie la raccolta. Per un’operazione del genere occorre ogni giorno una persona per ettaro. Per circa tre mesi, sono 6000 le persone impiegate in pianta stabile nella raccolta, svolta perlopiù da personale straniero di etnie diverse».

Fallaye voleva essere uno di quei seimila, ma non ce l’ha fatta. Si è suicidato, ultima vittima del “male” silenzioso che colpisce chi, insieme alla sua terra, perde anche ogni speranza.

Lo raccontano le cronache, lo dicono i pochi studi sul disagio degli immigrati in Italia. La scarsa o nulla integrazione nella società degli individui è alla base delle ricerche di Émile Durkheim sul suicido “anomico”.

Meglio la morte

Roberto Monaldo

Più forte di studi, statistiche e ricerche è la realtà. Ce la sbatte in faccia Aboubakar Soumahoro, il leader degli “invisibili”. «Ero nelle Marche ad occuparmi dei pescatori, i braccianti del mare, quando mi è arrivata questa notizia. Sono andato nelle campagne di Lucera a tentare di capire le ragioni di questa morte giovane e assurda».

Aboubakar non ha la forza di parlare, ci legge un messaggio che gli ha appena mandato un bracciante africano. «Fratello mio, ti giuro che siamo stanchi di vivere così. Il nostro è un lavoro da schiavi, rispetto zero, fatica tanta e soldi pochi. La morte sarebbe la conquista della pace per noi».

«Sono le condizioni di lavoro, la mancanza di diritti, anche dei più elementari le cause del disagio. I sindaci che si rifiutano di dare la residenza agli stranieri, impedendogli finanche di avere un medico di base, o di accedere alla vaccinazione anticovid, la mancanza di case dignitose e di salari giusti per chi mette in tavola i prodotti che mangiamo, la causa del mal di vivere di questi lavoratori invisibili». L’8 marzo alle undici, la Lega dei braccianti sarà a Foggia sotto la prefettura per “rivendicare ancora una volta», dice Soumahoro, “rispetto e dignità”.

Speranze deluse

«Non posso pensare che in un paese che si dice civile - commenta il sindaco di Lucera, Giuseppe Pitta – un ragazzo giovane sia costretto a togliersi la vita. Come tanti altri giovani come lui, Fallaye era giunto nella terra di Capitanata con la speranza di trovare un futuro migliore, invece vi ha incontrato una morte prematura e disperata. Questo fatto deve interrogare le nostre coscienze e spingerci ad impegnarci, con forza e determinazione, perché ciò non debba accadere mai più. Che la terra ti sia lieve, fratello Fallaye!».

Fallaye Dabo è morto lontano dalla sua terra. Forse un giorno un “griot”, un bardo del suo Paese, il Mali, racconterà la sua storia insieme a quella degli altri “invisibili” che popolano le nostre campagne.

       

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