La premier sarà accolta alla Casa Bianca, con la promessa di stracciare il memorandum cinese. Per l’Italia non è un grosso sacrificio, visto che finora non ha portato grossi benefici economici
Che fine farà il Memorandum of Understanding (Mou) che lega l’Italia alla Via della seta? Lo aveva firmato in pompa magna l’allora premier, Giuseppe Conte, nel 2019 con la Repubblica popolare cinese sotto la regìa dell’allora sottosegretario allo sviluppo economico, Michele Geraci, un indipendente vicino alla Lega.
La questione è principalmente politica, dato che la nuova via della Seta si è rivelata una scatola vuota che non ha determinato né un significativo aumento delle esportazioni italiane né degli investimenti esteri diretti cinesi in Italia.
L’accordo, molto criticato dai partner occidentali, deve essere rinnovato (o revocato) entro fine anno. La svolta di porre fine all’accordo da parte italiana sembra ormai presa e se ne parlerà domani a Washington, quando il presidente Joe Biden riceverà Meloni, ufficialmente «per riaffermare la forte relazione tra Stati Uniti e Italia».
I due leader, si legge in una nota della Casa Bianca, «discuteranno dei comuni interessi strategici, incluso il sostegno all’Ucraina, gli sviluppi in Nord Africa e una più stretta coordinazione transatlantica riguardo la Repubblica Popolare cinese». Ed è questo il punto cruciale visto che Biden e Meloni, continua la nota, «discuteranno anche della presidenza dell’Italia al G7 nel 2024». E l’Italia è l’unico paese del G7 ad aver firmato il memorandum con Pechino.
Le aspettative di Washington
Che il vento sia cambiato verso la Cina lo dimostra un articolo apparso il 24 luglio sul Financial Times secondo cui le principali società di consulenza statunitensi sarebbero in difficoltà ad attrarre gli investitori in Cina, mentre quelli già presenti si ritirano dal paese.
Washington sta ridisegnando i rapporti con il gigante asiatico che oscillano tra chi vuole il decoupling (Blinken), cioè la separazione dell’economia americana da quella cinese e chi tifa per il derisking (Yellen), cioè mantenere i legami economici e aumentare i fornitori alternativi come Vietnam o India. Nel frattempo gli Stati Uniti hanno aumentato le sanzioni, soprattutto nel settore dell’alta tecnologia.
Chi è più dipendente dalla Cina?
Ma chi è il paese più dipendente dalla Cina? «Nei paesi del G20 la Corea del Sud è il paese più esposto: le merci scambiate con Cina e HK valgono quasi il 20 per cento del Pil sudcoreano. L’Australia è al secondo posto (12 per cento), seguita da Arabia Saudita, Sud Africa, Indonesia e Messico, con circa il 9-9,5 per cento ciascuno», dice Andreas Rees, chief german economist di UniCredit Bank a Francoforte. «Tra gli europei, la Germania è più vulnerabile (6 per cento) di Francia (3 per cento) e Italia (4 per cento). Il meno esposto paese del G20 sono gli Stati Uniti con il 2,5 per cento del Pil».
Ma ultimamente l’export verso la Cina di Germania e Corea è stagnante, mentre aumenta quello verso gli Stati Uniti. «Più difficile sarà invece ridurre le dipendenze dal lato delle importazioni. La Cina domina le catene di approvvigionamento globali per il solare, eolico e batterie. Inoltre, la Cina ha un ruolo importante nell’estrazione di materie prime, come terre rare, grafite e magnesio», conclude Rees.
Il monito dell’Atlantic Council
In questo mutato quadro geopolitico gli Stati Uniti si aspettano che l’Italia chiuda la partnership con Pechino. Valbona Zeneli, docente di Sicurezza nazionale dell’Atlantic Council, uno dei think tank americani più autorevoli, ricorda che a fronte di un ruolo di primo piano come importatore di prodotti cinesi – nel 2022 «l’Italia era il secondo partner europeo, dopo la Germania, con più di 50 miliardi di dollari» – le esportazioni hanno rappresentato «meno del 3 per cento, equivalente a soli 18 miliardi».
«La visione ottimistica dell’Italia non è stata soddisfatta». Insomma, per ora la via della Seta è stata un fallimento.
Le offerte di Washington
Nell’ultimo decennio è raddoppiato l’interscambio commerciale tra Italia e Stati Uniti, «passato da 52 a 100 miliardi di dollari», scrive sempre Valbona Zeneli. I tempi delle ritorsioni trumpiane sull’agro-alimentare italiano sembrano un lontano ricordo.
«A differenza di quanto avviene con la Cina – continua l’analisi – il bilancio italiano con gli Stati Uniti è sempre positivo». «Lo scorso anno – si legge – l’export verso gli Stati Uniti ha toccato i 73 miliardi di dollari. Gli Usa sono il secondo mercato per l’Italia, pari all’11 per cento di tutte le esportazioni, e a più del 20 per cento per tutte quelle verso paesi extra Ue».
Ma c’è di più. Zeneli ricorda che le partecipazioni azionarie italiane negli States sono superiori ai 41 miliardi di dollari. Gli investimenti diretti italiani negli Stati Uniti sono quattro volte quelli in Cina. «Washington e Roma – continua Valbona Zeneli – dovrebbero sviluppare nuove collaborazioni nel campo dell’intelligenza artificiale, la transizione energetica e la difesa».
I danni collaterali
Ma la revoca di questo accordo potrebbe danneggiare l’Italia? «L’Italia è meno dipendente dal mercato delle esportazioni cinesi rispetto alle altre grandi economie europee, come la Germania», dicono Nadia Gharbi e Dong Chen, economisti di Pictet Wealth Management.
«Nel 2022, i cinque principali importatori di prodotti esportati dall’Italia sono stati la Germania (12,4 per cebti del totale esportato), gli Stati Uniti (10,4 per cento), la Francia (10 per cento), la Spagna (5,1 per cento) e la Svizzera (5 per cento). La Cina ha rappresentato solo il 2,6 per cento delle esportazioni totali di beni (pari allo 0,9 per cento del Pil). Mentre in Europa le corrispondenti percentuali erano del 6,8 per cento per la Germania e del 4 per cento per la Francia. Lo scorso anno le esportazioni dell’Italia verso la Cina hanno raggiunto i 16,4 miliardi di euro», proseguono i due economisti.
Ma allora è convenuto o no all’Italia aderire alla via della Seta? «Da quando l’Italia ha sottoscritto il memorandum nel 2019, non c’è stato un aumento significativo delle esportazioni. Il recente e temporaneo picco di esportazioni italiane verso la Cina è da attribuire alla presenza in Italia di un impianto di Pfizer legato alla produzione di un farmaco anti Covid. Allo stesso modo, non sono neanche aumentati significativamente gli investimenti diretti cinesi in Italia», concludono Nadia Gharbi e Dong Chen di Pictet Wealth Management.
Pechino potrebbe vendicarsi da un ritiro dell’Italia dall’iniziativa? «La Cina deve mantenere una relazione relativamente stabile con l’Europa considerato il raffreddamento dei suoi legami con gli Stati Uniti. Una ritorsione contro l’Italia non le gioverebbe», concludono gli economisti di Pictet Wealth Management. Insomma il capitolo cinese si può chiudere senza troppi rimpianti.
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