La chiusura di Atreju è nel segno dell’Albania. Giorgia Meloni utilizza il suo intervento finale alla festa di partito per mettere sullo stesso piano la lotta alla mafia e quella ai trafficanti, dal punto di vista della premier una «mafia del mare». «I centri in Albania funzioneranno, dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo italiano. Perché io voglio combattere la mafia e chiedo a tutto lo stato italiano, alle persone perbene, di aiutarmi a combattere la mafia. Non sono io il nemico, io sono una persona perbene» urla la premier al pubblico del tendone al Circo massimo, ottenendo in cambio un boato d’approvazione.

La presidente del Consiglio vuole intervenire sul neo più evidente del suo secondo anno alla guida del governo, quei cpr che – dopo ritardi su ritardi nella realizzazione – si sono rivelati un buco nell’acqua per quanto riguarda la deportazione dei migranti raccolti in acque internazionali. Tutte le volte che l’esecutivo ha tentato di portarvi qualche decina di migranti ha dovuto fare i conti con i magistrati che non hanno voluto convalidare la deportazione. Tanto da sollevare il dubbio se non sia il caso di lasciare i centri costruiti al governo del premier albanese Edi Rama e trasformando la vicenda d’oltre Adriatico in una débâcle comunicativa molto più di altri problemi che ha incontrato il governo, come la manovra impaludata alla Camera.

Giusto ieri, le opposizioni hanno scritto al presidente della Camera Lorenzo Fontana per protestare contro la manovra «disomogenea» presentata dal governo nel mezzo di mille travagli: nel frattempo, negli emendamenti dei relatori si possono ritrovare nuovi bonus per le scuole paritarie, la Naspi estesa anche a chi si dimette e un fondo straordinario per la legalità da 45 milioni da spartire tra le regioni, oltre un bonus irpef per chi investe in start up innovative e un ampliamento della platea di lavoratori dipendenti che potranno accedere alla flat tax sulle prestazioni da autonomi, visto che la soglia si alza da 30 a 35mila euro di reddito. Ma dal palco, Meloni vuole mostrare come «combatte la mafia» e chiede ancora un po’ di fiducia sul suo esperimento albanese.

Noi contro loro

Per il resto, la chiusura di Atreju è la sua festa personale, la ciliegina sulla torta di una festa che dai tempi di Colle Oppio si è espansa senza incontrare argini: il villaggio di oggi sta a quello di allora «come Crosetto sta alla sottoscritta» dice Meloni. Ma l’autocelebrazione di sé stessa e la sua comunità – un passaggio del discorso è dedicato all’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale che «guarda dal buco della serratura», un altro, ironico, sulla «foga» di Arianna di nominare «amici e parenti e anche gente che non conosce» – si trasforma sempre di più in un noi contro loro.

Dove “loro” sono gli «uccelli del malaugurio che siedono su alberi sinistri come quercia e ulivo», come dice il deputato Fabio Roscani. Nello specifico, Meloni ne ha per tutte le figure di riferimento del mondo della sinistra, da Maurizio Landini, colpevole di «aver utilizzato toni senza precedenti» che «se li avessimo usati noi sarebbero arrivati i caschi blu dell’Onu» e di utilizzare «argomenti deboli» per «aiutare la sinistra, non certo i lavoratori», a Elly Schlein, a cui «si inceppa la lingua quando parla di Stellantis» ed è «troppo occupata in duetti rap con gli Articolo 31 e balli sui carri allegorici del Gay Pride».

Ma il piatto forte è per Romano Prodi, che la scorsa settimana ha detto che Meloni piace all’establishment perché «obbedisce». La miccia che serviva alla premier per innescare il tritolo verbale del suo intervento: «Quando ho letto questi improperi isterici di Prodi ho brindato alla mia salute. Siamo ancora dalla parte giusta della storia». E ribalta l’accusa: «Dalla svendita dell’Iri fino a come l’Italia è entrata nell’euro, all’accordo nel Wto, Prodi dimostra che di obbedienza se ne intende parecchio. Noi siamo all’opposto». I primi “buu” scattano già alla sola evocazione dell’ex presidente del Consiglio, alla fine della frase il tendone, già surriscaldato da un temperatura tropicale, esplode.

I guai di Salvini

È la giornata delle sorelle Meloni: Giorgia che canta l’inno in mezzo ai giovani di Atreju come da tradizione indossando la felpa dei volontari, e Arianna, che ormai ha totalmente in mano il partito. Solo posti in seconda fila per gli alleati, insidiati al centro dai nuovo movimenti del mondo cattolico che si agita al loro fianco sinistro. Ma se Antonio Tajani, Maurizio Lupi e Lorenzo Cesa non piangono ma almeno corrugano la fronte, Salvini sicuramente non ride.

Il segretario è riuscito a superare più o meno indenne il congresso della Lega lombarda. Certo, il risultato non è quello a cui ambiva Salvini: il partito regionale è uscito a superare il commissariamento votando compattamente per il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo, non ostile al ministro dei Trasporti ma neanche suo fedelissimo. L’uomo del segretario, Luca Toccalini, aveva ritirato la sua candidatura qualche giorno fa: a Salvini è toccato fare buon viso a cattivo gioco per non mandarlo incontro a sconfitta sicura, ma anche durante la riunione i suoi compagni di partito lombardi non sono andati per il sottile. I rimproveri contro i «nemici dentro al partito» e sulla disattenzione del segretario al nord di Attilio Fontana e di Romeo hanno colto dritto nel segno, restituendo l’immagine di un partito molto più bossiano che vannacciano.

Salvo che l’Umberto, nel frattempo, ha ricevuto la tessera numero 1 e la presidenza ad honorem del neonato Patto per il Nord del superdissidente Paolo Grimoldi. Resta da vedere se il segretario, che si è difeso minacciando più intransigenza nei confronti dei dissidenti e rivendicando i cinque ministri del nord che ha messo nel governo, saprà essere all’altezza delle richieste del partito lombardo. Intanto, collegato con Atreju, «dal sole di Milano al sole di Roma», ha augurato un buon Santo Natale. Per poi aprire una querelle sul codice della strada nientemeno che con Vasco Rossi.

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