- Il presidente del Consiglio non è obbligato a cedere il controllo politico dei servizi segreti a una figura delegata: può controllarlo direttamente come hanno fatto Mario Monti e Giuseppe Conte.
- Ma nel concentrare il potere di controllo sui servizi si corrono parecchi rischi, come ha scoperto lo stesso Conte contro cui gli stessi alleati, Pd e Italia viva, hanno fatto una dura battaglia per costringerlo a cedere la delega.
- Conte alla fine ha dovuto cedere, ma era ormai troppo tardi per salvare il suo governo. Meloni, che ha alleati non meno pericolosi di Conte, ha preferito evitare da subito le accuse e ha deciso di affidare l’incarico al suo sottosegretario alla presidenza.
Giorgia Meloni ha deciso di non seguire l’esempio di Giuseppe Conte e nel Consiglio dei ministri di ieri ha adottato il primo passaggio per delegare a una persona di sua fiducia il controllo politico sui servizi di intelligence: salvo sorprese dell’ultimo minuto, nei prossimi giorni il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano sarà nominato all’incarico di Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica.
Un ruolo chiave
Si tratta di un incarico delicato e importante. «L’Autorità delegata si occupa della cura quotidiana dei rapporti informativi provenienti dalle agenzie operative e redige regolamenti delle agenzie di intelligence, in gran parte segreti», spiega Adriano Soi, ex prefetto e dirigente del Sismi e oggi docente nel corso in Intelligence sicurezza e interesse nazionale della Lumsa Master School. La sua centralità è chiave soprattutto in un governo di coalizione potenzialmente litigioso, visto che si occupa anche di smistare le informazioni ai ministri che fanno parte del comitato per la sicurezza pubblica. Mantovano, 64 anni, magistrato, ex parlamentare di An e del Pdl, gode della fiducia di Giorgia Meloni, che conosce da trent’anni.
Meloni gli ha già affidato un altro incarico importantissimo, quello di sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri. I due ruoli hanno molto in comune e non è la prima volta che coincidono. Nel 2008, Silvio Berlusconi li aveva entrambi affidati al suo uomo di fiducia, Gianni Letta. All’epoca, la legge prevedeva che, vista la sua delicatezza, il ruolo di Autorità delegata venisse svolto in maniera esclusiva e Berlusconi ha dovuto cambiare la legge per permettere a Letta di ricoprire entrambi gli incarichi. L’esclusività è stata ripristinata dal governo Monti e così ieri, Meloni ha fatto approvare una nuova deroga per aprire le porte dei servizi al suo uomo di fiducia.
Da dove arriva
L’Autorità delegata nasce nel 2007 con la riforma dei servizi di intelligence scritta sotto l’influenza degli scandali che avevano colpito l’allora capo del Sismi Nicolò Pollari e il dirigente Marco Mancini – il rapimento dell’imam egiziano Abu Omar da parte della Cia, lo scandalo Telecom-Sismi e quello dell’archivio riservato dell’ex funzionario Pio Pompa. Ma la sua gestazione è stata molto più lunga, dice Soi: «La prima commissione risale addirittura al 1984».
Obiettivo della nuova legge era risolvere il dualismo che affliggeva l’intelligence italiana dalla fine degli anni Settanta con un servizio alle dipendenze del ministero della Difesa ed un altro a quelle dell’interno, mentre la “faccia” dell’operato dell’intelligence restava in capo al presidente del Consiglio. «Un caso da manuale di sganciamento di responsabilità da potere». Con la riforma, i poteri di intelligence sono tornati a concentrarsi nelle mani del capo di governo che oggi non solo nomina direttamente i capi delle agenzie (Aise e Aisi), ma le controlla tramite una forte struttura di coordinamento tra le due, il Dis, oggi guidato dall’ambasciatrice Elisabetta Belloni.
E fonte di guai
Se da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ne consegue che possono nascerne anche grossi guai, come ha scoperto a sue spese Giuseppe Conte. «L’Autorità delegata è una figura prevista dalla legge, ma non è imposta – dice Soi – Il presidente del Consiglio può decidere di mantenere le delega ed esercitarle direttamente».
È la scelta fatta ad esempio da Monti nei primi mesi del suo governo e da Conte, che nel 2018 decide di non delegare l’autorità e restare così al centro diretto delle comunicazioni dei servizi. Ma a differenza dell’ex rettore della Bocconi, Conte conserva la delega per due anni e mezzo e la trasformerà, involontariamente, in una delle ragioni della sua caduta. Nell’autunno del 2020 Conte vuole creare un istituto italiano di cybersicurezza e fargli assegnare fondi previsti dal Pnrr. Per alleati e rivali interni, sta concentrando troppo potere nelle sue mani. Pd e Italia viva gli chiedono di lasciare la delega a una figura politica. «Giuridicamente la richiesta non stava in piedi», dice Soi. Ma politicamente era tutto un altro paio di maniche.
Il Pd punta ad assegnare la delega ad uno dei suoi, l’allora deputato Emanuele Fiano, Matteo Renzi vuole colpire Conte e far emergere fatti imbarazzanti che lo riguardano, in particolare la goffa gestione dei rapporti di intelligence con l’amministrazione Trump. Quando nel gennaio dell’anno successivo Italia viva è pronta ad aprire la crisi, Conte è costretto a cedere. Ma si prenderà comunque una piccola rivincita: l’incarico non va a un politico, ma a un tecnico di sua fiducia, il diplomatico Pietro Benassi. Sarà comunque troppo tardi per salvare il suo governo che cadrà poche settimane dopo. Meloni, che secondo i retroscena ha vagheggiato per qualche giorno di mantenere la delega come Conte, sembra aver capito che – con gli alleati che si ritrova – è meglio non rifare lo stesso errore.
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