Dopo l’attacco di martedì alla Camera, la presidente del Consiglio fa marcia indietro. Aggiungendo un nuovo capitolo di un rapporto controverso. Nonostante l’ex numero uno della Bce non abbia mai parlato del governo in carica
Un’altalena di sensazioni, quelle di Giorgia Meloni nei confronti di Mario Draghi, al limite dell’amore-odio politico. Il sentimento, nella giornata di martedì, ha virato decisamente sulla tensione. Al limite della rottura definitiva, che stava per essere sancita nella cornice solenne dell’aula della Camera. Senza un apparente motivo. Dopo qualche ora, però, c’è stato il tentativo di distensione, con uno scambio di messaggi fatto trapelare da palazzo Chigi.
Il risultato? La presidente del Consiglio continua ad andare sull’ottovolante del rapporto con il suo predecessore. A oltre un anno dalla vittoria elettorale, dà chiari segnali di insofferenza verso la pesante eredità che ha raccolto. Eppure Draghi non ha mai proferito parola sull’operato del governo in carica: mai ha fatto sentire la propria pressione.
Si è limitato a disquisire di Europa nei pochissimi interventi pubblici messi agli atti dopo la fine dell’esperienza di governo. Per tutta risposta ha subito vari strattoni dai ministri, in particolare sul Pnrr. E adesso dalla premier in persona.
«Per alcuni la politica estera è farsi fare qualche fotografia, anche quando a casa non si portava niente», aveva detto la premier a Montecitorio martedì sera riferendo sul prossimo vertice di Bruxelles. Un riferimento tutt’altro che velato all’ex presidente del Consiglio.
«Io riesco a parlare con la Germania, con la Francia e pure con l’Ungheria, perché penso così di fare bene il mio mestiere», aveva ribadito. L’affondo non necessitava di sottotesti: la foto era quella in treno di Draghi con il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, e il presidente francese, Emmanuel Macron. La retromarcia è parsa un rattoppo improvvisato: «Ce l’avevo con il Pd». Il concetto è stato ribadito nell’intervento di ieri al Senato: «Nessun attacco a Draghi», confermando il «rispetto» per l'ex presidente della Bce. E allora chissà a quali foto si riferiva la presidente del Consiglio.
Strascichi in parlamento
Nel day after, in Transatlantico, nel centrodestra qualcuno ha fornito delle interpretazioni, tendendo a minimizzare nei conversari privati: «Le è solo scappata la frizione». Insomma, ha esagerato lasciandosi prendere dalla trance agonistica dello scontro con le opposizioni. Non è la prima volta che accade: alza i toni ed esonda. Solo che l’incidente con Draghi arriva esattamente nei giorni in cui si dibatte di un’ipotetica candidatura dell’ex premier alla guida della Commissione europea.
Non sono mancati strascichi nel confronto in parlamento. In particolare i centristi hanno cavalcato la sortita meloniana. Il leader di Italia viva, Matteo Renzi, nel suo intervento a palazzo Madama, ha ironizzato sul governo tracciando un parallelo sul caso del treno fermato dal ministro Francesco Lollobrigida: «Quando Draghi ha preso il treno non è sceso a Ciampino».
E dire che tra Draghi e Meloni c’era stata un’intesa politica a prima vista nonostante le diverse formazioni culturali e politiche. L’ex premier, durante la sua esperienza a palazzo Chigi, ha riconosciuto alla leader di Fratelli d’Italia un ruolo di opposizione dialogica. Un esempio su tutti è quello della guerra in Ucraina (anche ieri la premier ha sentito telefonicamente Volodymyr Zelensky ribadendo «il sostegno del governo italiano in ogni ambito alle autorità e alla popolazione ucraine»). La posizione atlantista è stata apprezzata da Draghi.
Una legittimazione in piena regola per la leader di Fratelli d’Italia, suonata come una provocazione alla Lega di Matteo Salvini che ha fatto da “donatore di sangue” appoggiando l’esecutivo di larghe intese. Per Meloni, insomma, è stata l’occasione di essere elevata al rango di interlocutrice sui temi di politica estera. Un’investitura preziosa per chi in quella fase si candidava a guidare il paese.
I convenevoli durante il passaggio di consegne alla presidenza del Consiglio hanno forse rappresentato l’apice dell’armonia tra i due, tanto che la manovra economica – quella dello scorso anno – è stata in perfetta continuità con il governo dell’ex numero uno della Banca d’Italia. Il preludio di un idillio, di una premier pronta ad accogliere i consigli di Draghi. Almeno sui dossier più importanti. Invece qualcosa si è spezzato.
Tensioni sul Pnrr
Le prime crepe si sono aperte quando l’esecutivo di Meloni ha iniziato a mettere mano al Pnrr. Il ministro Raffaele Fitto, in più occasioni, ha scaricato le responsabilità su chi c’era prima. Quindi a Draghi. Così il Piano nazionale di ripresa e resilienza è stato riscritto daccapo e sottoposto all’Unione europea, che di recente ha dato il via libera ufficiale.
E ora porta la firma di Fitto e Meloni. Anche sulle nomine, però, la premier ha iniziato l’operazione di rovesciamento delle figure volute dal suo predecessore, a cominciare dal ministero dell’Economia, dove ha iniziato la guerra all’allora direttore generale del Mef, Alessandro Rivera.
La freddezza è aumentata nei mesi successivi, palesandosi dopo la nomina della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha messo Draghi a capo di una struttura per rilanciare la competitività dell’Ue. Per Meloni era «una buona notizia», ma in un’ottica di «occhio di riguardo per l’Italia».
Non si sono viste scene di giubilo dalle parti di palazzo Chigi, subodorando l’incarico come un colpo al governo. Le indiscrezioni su una possibile nomina di Draghi come erede di von der Leyen ha fatto salire il livello di tensione. Le parole pronunciate alla Camera, seppure rimangiate, assumono insomma un significato ancora più particolare: al netto della foga, suonano come un veto al nome dell’ex banchiere.
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