«Scrivete solo Giorgia». Dopo l’appello al voto europeo centrato su di sé al di là del ragionevole impulso derivante dal voto di preferenza, la presidente del Consiglio si appresta a giocare una partita elettorale diretta mettendo in palio interamente il suo ruolo e il suo corpo politico; una sfida che implica un inedito accentramento di potere.

In vista del referendum sulla riforma istituzionale delineata dalla legge costituzionale in fase di approvazione definitiva in parlamento, è utile ragionare sul rapporto politico, psicologico e organizzativo che intercorre tra il capo e il popolo soprattutto quando si evoca un plebiscito.

Il capo e il popolo

La guida e i seguaci che subiscono le decisioni senza sfumature, nessuna partecipazione, fatta eccezione per mero il voto. Un gesto asimmetrico e routinario, apparente, che consacra piuttosto che legittimare, che incorona e sancisce, ma senza posizioni intermedie.

Il plebiscito – conosciuto e ampiamente praticato dai Romani – è un forte gesto politico, violento, di arrogante esposizione muscolare che sovente introduce elementi di autoritarismo ovvero culminante nell’esaltazione di un solo soggetto. Il capo appunto che rappresenta il potere di tipo para carismatico e/o tradizionale, ma fiacco quanto a legittimazione democratica.

Con me o contro di me, dove la dicotomia esaspera, crea la divisione, la alimenta, adducendo l’argomento del nemico: chi vota contro separa, è pericoloso per l’unità nazionale, un classico del pensiero politico ben analizzato da Carl Schmitt. L’esito della “consultazione” è scontato e comunque non messo in discussione.

Dai Romani a Mussolini

Plebs e scitum, plebe e stabilire, nel senso di ordine, e in quest’accezione il plebiscito è stato ampiamente adottato per porre in essere un nuovo equilibrio politico e istituzionale. La vera accelerazione nel protagonismo del plebiscito rispetto al passato Romano si ebbe con la Rivoluzione francese.

Celebri i casi dei plebisciti indetti in tre occasioni da Napoleone Bonaparte per l’approvazione rispettivamente della costituzione (1799), l’istituzione del consolato a vita (1802) e la nascita dell’impero (1804). Suo nipote Luigi Napoleone, futuro Napoleone III, fece ricorso al plebiscito per sancire il colpo di stato e la restaurazione dell’impero (1852).

I plebisciti talvolta sono anche stati utilizzati per confermare annessioni territoriali, come in Italia nel 1848, 1860, 1866 e 1870.

Nel 1924 Benito Mussolini e il fascismo ricorsero a un vero plebiscito con le elezioni illegali del 1924, fatte di brogli, intimidazioni e violenze su elettori e candidati, la cui denuncia costò la vita a Giacomo Matteotti.

Anche i regimi sovietici utilizzavano strumenti di “democrazia elettorale” conferendo al voto un aspetto rituale privo di significato politico e senza conseguenze non essendo in palio la vittoria; “votazioni bulgare” sarebbe entrato nel gergo politico giornalistico per segnalare un voto scontato che accresceva il potere del regime, ma soprattutto del partito e della persona che lo rappresentava all’apice della gerarchia.

De Gaulle, Pinochet, Renzi

In un caso storico il plebiscito determinò la fine di un regime autoritario; per una combinazione di eventi nazionali ed internazionali e grazie a una forte mobilitazione popolare, il voto su “sé stesso” chiamato nel 1988 dal presidente Augusto Pinochet che intendeva chiedere l’estensione della durata del mandato, comportò l’inizio della fine del regime autoritario cileno del generale il cui golpe destituì Salvador Allende nel 1973.

Sull’altro versante, ossia di plebisciti non formalizzati, ma percepiti come tali per l’impegno nella sua promozione e la caratura e il peso politico del promotore, va certamente menzionato il referendum del 1969 in Francia attraverso il quale il generale Charles De Gaulle intendeva portare a compimento la riforma istituzionale e costituzionale del 1958 modificando il ruolo e le funzioni del Senato, pena le sue dimissioni che effettivamente avvennero dopo una sorprendente sconfitta.

L’Italia

Nel 2016 in Italia il referendum costituzionale voluto dal Partito democratico mutò rapidamente e radicalmente in una consultazione sulla popolarità del Presidente del Consiglio e sulla sua politica.

Per una serie di errori sostanziali politici e non solo di comunicazione, il voto si trasformò in un plebiscito appunto sul livello di gradimento del politico Renzi, tanto che anche coloro che condividevano il merito delle proposte le rigettarono facendo pesare di più le considerazioni sul leader (esistono varie pubblicazioni scientifiche a sostegno di questa interpretazione).

I pericoli

Dunque, ogni voto ha delle conseguenze, sia che il proponente politico metta in palio palesemente la propria testa, il proprio destino politico oppure no.

Après moi le deluge. Evocare il disastro per il Paese se gli elettori non votano in maniera coerente con quanto proposto dal governo è sempre un’arma a doppio taglio. In caso di sconfitta implica un rafforzamento dell’opposizione, l’indebolimento del capo e il pericolo di una torsione autoritaria ancora maggiore per evitare di perdere il potere.

Tuttavia, anche in caso di vittoria le conseguenze non sono sempre positive per il leader che deve fronteggiare non solo il sostegno, ma anche l’eccesso di consenso che può tramutarsi in una crescente de-responsabilizzazione della classe dirigente.

I plebisciti sono istituti di democrazia diretta e possono, con estrema prudenza e sobrietà, interagire e solo in parte integrarsi con gli strumenti di democrazia rappresentativa, sebbene con la possibilità che entrino in conflitto proprio con le basi dei suoi principi.

Rispetto ai referendum il plebiscito non è regolamentato e sebbene simile nella forma è totalmente diverso nella sostanza. Il plebiscito è convocato dal governo, dal suo capo, mentre il referendum è normato e regolato da apposita legislazione.

Insomma, il plebiscito formalmente o politicamente tende a trasformare il rapporto tra il capo e il popolo in un capopopolo.

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