La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha definito «una rivoluzione» la legge delega sul fisco approvata dal governo.

In realtà, più che alla destra del futuro che lei sta cercando di incarnare, il progetto della delega fiscale somiglia a un ritorno al modello caro ai liberali di centrodestra degli anni d’oro del berlusconismo. Più precisamente, a quel Libro bianco sulla riforma fiscale datato 1994 e studiato da un esponente politico che proprio Meloni ha richiamato in causa come nume tutelare della sua nuova destra: l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.

Ridotto all’osso, il modello è sintetizzabile con: meno tasse redditi da lavoro autonomo e sulle imprese, a cui viene anche garantito un salvacondotto tributario.

Le vere scelte dovranno essere fatte entro 24 mesi con i decreti delegati, tuttavia l’obiettivo dichiarato da palazzo Chigi è chiaro: «Stimolare la crescita economica, riducendo il carico fiscale». In altre parole, sgravare i ceti medi e medio-alti e le imprese dalle zavorre fiscali, cominciando con loro a implementare la cosiddetta flat tax che è stata il cavallo di battaglia della Lega in campagna elettorale. L’obiettivo sarebbe quello di arrivare alla flat tax per tutti, nel frattempo però si comincia con i professionisti e gli imprenditori.

Proprio questa scelta di campo rischia di mettere Meloni su un piano inclinato nel rapporto con il suo elettorato di riferimento. Ovvero quella base che viene dalla destra sociale e non considera il welfare statale un apparato da ridurre al minimo. Non a caso, contro ogni dato di fatto, la premier ha dichiarato che la riforma «aumenterà la crescita ma anche l’equità» e «si concentra sui più fragili e sul ceto medio», ha detto davanti alla fredda platea della Cgil. Invece, meno tasse difficilmente è sinonimo di più servizi e di quella «visione sociale» che la premier ha spesso richiamato.

Gli sgravi a chi investe, l’abbattimento della pressione sulle rendite e – secondo la prospettiva annunciata – una flat tax per tutti al 15 per cento in cinque anni producono un solo effetto: l’insostenibilità di una spesa pubblica che supera abbondantemente i mille miliardi di euro. Con la conseguenza inevitabile che, erodendo il gettito fiscale, non si possa che ridurre la spesa pubblica.

In altre parole, in materia fiscale il governo Meloni sta sempre più incarnando la destra liberista e non quella sociale. Nonostante nel programma elettorale di settembre ci fosse un corposo capitolo intitolato «per uno stato sociale che non dimentichi nessuno» che parlava di ammortizzatori sociali ai lavoratori, un piano straordinario di edilizia pubblica, nuove forme di assistenza sociale, diritto allo studio e sostegno al terzo settore.

Una contraddizione che ha messo in luce anche una parte dell’opposizione. «Quella della premier Meloni si chiamava destra sociale, oggi è la destra dei privilegi», ha detto il deputato dei Verdi, Angelo Bonelli.

La legge delega, quindi, rappresenta la vittoria di una visione del mondo che è molto più vicina all’elettorato della Lega e a quello di Forza Italia, che al 30 per cento di sostenitori di Fratelli d’Italia.

La vittoria di Lega e FI

Non a caso, i primi a rivendicare il testo sono stati i leghisti Alberto Bagnai e Claudio Borghi. «La riforma fiscale segna un deciso avanzamento delle storiche battaglie della Lega», è la sintesi di Bagnai, che elenca «la flat tax, nostro obiettivo storico, il passaggio dell’Irpef da quattro a tre aliquote», «la razionalizzazione di Iva e Ires e il superamento dell’Irap, rendendo il sistema paese più competitivo e attrattivo per le imprese».

Sulla stessa linea anche il capogruppo in commissione Bilancio della Camera, Roberto Pella (FI), che non si è trattenuto: «La visione da sempre portata avanti dal presidente Berlusconi torna a essere la ricetta vincente anche per l’approvazione della riforma fiscale del governo di centrodestra».

Anche sulla lotta all’evasione, cavallo di battaglia che Meloni cavalcava quando era all’opposizione, il proclama ha perso smalto: «L’evasione fiscale non va tollerata, ma non è da confondere con la caccia al gettito che molto spesso lo stato italiano ha fatto negli ultimi anni».

Scassare i conti

Meloni, tuttavia, si è affidata a un uomo di sua fiducia nella stesura: Maurizio Leo, viceministro con delega al Fisco che è quasi un ministro autonomo incistato nel dicastero di Giancarlo Giorgetti. Professionista e tributarista dal pacchetto clienti importante, Leo si è mosso nella direzione che meglio conosce e a cui Fratelli d’Italia vuole allargarsi. Anche a scapito del proprio elettorato storico, infatti, la misura è proiettata verso quei feudi di interesse economico che nella precedente stagione politica avevano negli altri partiti del centrodestra i loro referenti preferenziali.

Il trucco, però, potrebbe nascondersi come sempre nei dettagli. La riforma tratteggiata nella delega, infatti, costerà molti miliardi: almeno cinque a partire dall’anno prossimo, secondo le prime stime. Con aumenti ulteriori a mano a mano che, secondo gli annunci, si allargherà la platea della flat tax. La scommessa del governo è che la riduzione delle tasse faccia crescere il Prodotto interno lordo e questo finanzi almeno una parte della riforma.

Se questo non accadesse e la delega fiscale rischiasse di scassare il bilancio in una congiuntura economica così delicata, l’escamotage è pronto, con una norma che prevede che le misure, per essere implementate, debbano avere coperture previste e non comportino oneri aggiuntivi.

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