Lega e FI votano contro i rispettivi emendamenti su canone Rai e sanità. Lite tra Giuli e Crosetto. La premier deve gestire le rivendicazioni di Tajani, che chiede un ministero. Tentazione elezioni
«Se abbiamo trovato l'accordo per il cessate il fuoco in Libano...», è stata la risposta di Giorgia Meloni ai cronisti, arrivando al Rome Cavalieri hotel per partecipare ai Med Dialogues. Apparentemente scanzonata, in realtà la premier ha percepito che la fase è delicatissima. Il clima in parlamento è incandescente, con la Lega e Forza Italia l’una contro l’altra armate e decise a votarsi contro: occhio per occhio, gli azzurri votano con le opposizioni contro l’abbassamento del canone rai, i leghisti restituiscono lo sgarbo astenendosi quando la commissione in Senato vota un emendamento sulla sanità in Calabria a prima firma di Claudio Lotito. E la spirale sembra avvitarsi su se stessa, apparentemente inarrestabile.
L’unica a poterla fermare è l’intervento di Meloni, le cui proposte di pace però continuano ad essere poco allettanti per entrambi i fronti.
La Lega è sempre più decisa a rivendicare le sue misure bandiera e ha mostrare il volto duro, come ha fatto Matteo Salvini con i sindacati proprio nei giorni scorsi, firmando la precettazione anche a costo di subire il rimbrotto del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale ha ribadito il suo auspicio per un «confronto costruttivo» tra istituzioni e parti sociali. E anche sul fronte delle regionali, nonostante il crollo in Umbria, il segretario è deciso a rivendicare ancora una volta la presidenza del Veneto, che Fratelli d’Italia territoriale invece rivendica ormai come suo feudo. Uno scontro, questo, solo rimandato al 2025.
Il pericolo maggiore, invece, arriva proprio da Forza Italia, che ha dismesso i panni concertativi indossati fino ad oggi per puntare i piedi: in manovra non sono stati accolti i suoi suggerimenti, dal ritocco alle pensioni minime al taglio dell’irpef e anche sul fronte delle nomine i nomi azzurri sono ancora nel limbo, in Rai prima di tutto ma anche per la Corte costituzionale.
«Fitto è stato nominato grazie ai nostri buoni uffici nel Ppe», rivendica una fonte di primo piano, «e ora siamo stabilmente il secondo partito della maggioranza». Eppure, nessuna delle due constatazioni ha prodotto un ritorno concreto di governo, è la constatazione. Gli azzurri cercano infatti un ristoro prima di tutto nell’esecutivo, dove hanno meno ministri rispetto alla Lega, e ambirebbero ad ottenere almeno una parte delle deleghe lasciata del neo vicepresidente della Commissione Ue.
Su questo fronte, però, Meloni non intende aprire il dialogo e ha annunciato nei giorni scorsi che sarà palazzo Chigi ad assumere l’interim almeno fino al 2025: troppo alto è il rischio che redistribuire quelle competenze produca un effetto domino di rimpasto. Inoltre, attribuire un nuovo dicastero a Forza Italia farebbe insorgere la Lega, sempre più nervosa anche a causa della bocciatura costituzionale della riforma sull’autonomia, che dovrà tornare in parlamento.
Le rivendicazioni di FI
Come se non bastasse lo scontro aperto, tra gli azzurri sta serpeggiando anche un sospetto: che FdI stia lavorando sottotraccia per rafforzare Noi Moderati, il gruppo parlamentare centrista guidato da Maurizio Lupi. Nato per sabotare la nascita del terzo polo Rezi-Calenda e riportare nell’alveo del centrodestra i voti di centro, il gruppo di Lupi è composto da molti ex Forza Italia e la strategia inziale appariva quella di un progressivo ritorno nel partito fondato da Silvio Berlusconi. Ora, però, Noi Moderati sta assumendo progressivamente altri connotati: con l’adesione delle ex ministre Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini il piccolo polo si è rafforzato numericamente e, dopo l’accordo con Centro popolare, Lupi ha annunciato anche quello con il Maie (il partito degli italiani all’estero). Inoltre, per Lupi è stata addirittura adombrata la candidatura a sindaco di Milano. Tutte mosse impossibili senza un placet di Fratelli d’Italia, che gli azzurri più attenti hanno letto come un modo dei meloniani per insidiare al centro Forza Italia. Un sabotaggio bello e buono, insomma, per frenare la crescita di Antonio Tajani.
Se badasse ai veti incrociati, la premier sarebbe condannata all’immobilismo e questa è una scelta che caratterialmente non le si addice: tuttavia ogni passo potrebbe rivelarsi falso, proprio nel momento più delicato per l’approvazione della Manovra. Così, chi fa parte del suo cerchio ristretto è pronto a giurare che le sia tornata in mente la tentazione rivelata ai suoi anche nei mesi scorsi: tornare alle elezioni pur di non farsi logorare, così da ristabilire una volta per tutte i rapporti di forza nella maggioranza.
Anche perché, viene fatto notare, non sono solo gli alleati a litigare tra di loro. Anche dentro Fratelli d’Italia sta infuriando il caso della conferma di Evelina Christillin alla presidenza del museo Egizio di Torino da parte del ministro della Cultura Alessandro Giuli senza prima consultare il plenipotenziario piemontese del partito, il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Giuli avrebbe obiettato di essersi consultato con un altro piemontese, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, col risultato di indispettire ancora di più il numero uno il fondatore di FdI.
La diretta interessata Christillin ha tentato di chiudere la polemica, dicendo di essere «in ottimi rapporti sia con Giuli sia con Crosetto» e di sperare che «sia solo un malinteso». Tuttavia, lo scontro è di metodo e ben più profondo: quando verrà chiuso, lascerà comunque strascichi di clima pesante. Con Meloni sempre più sola – accanto a lei forse solo il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti nel tenere la barra dritta sui conti – in una maggioranza sempre più in fibrillazione.
© Riproduzione riservata