Giorgia Meloni sa di guidare la lista della coppa e rivendica il vecchio criterio secondo cui il papabile premier sarà chi prenderà più voti. Dall’altra parte le cose non vanno meglio. Il segretario del Pd Enrico Letta in queste ore cerca di mettere insieme un’alleanza «solo elettorale»
Hanno abbattuto il presidente del Consiglio Mario Draghi sicuri di essere pronti per andare a palazzo Chigi al suo posto. Ma ora si sono impantanati al primo scalino della scala: vinceranno, ne sono certi, ma chi farà il premier? Ovvero chi davvero si trasferirà nell’ambìto appartamento del terzo piano del palazzo che Giuseppe Conte, due volte inquilino, ha fatto ristrutturare a sua immagine e somiglianza?
Finché era a trazione berlusconiana, lo schieramento delle destre il problema non lo aveva: dalla sua «discesa in campo» nel ‘94 l’ex Cavaliere ha inciso nel simbolo un’indicazione eloquente: «Berlusconi presidente». Il nostro ordinamento non prevede l’elezione diretta del premier, ma quello fu una specie di tentativo di riforma costituzionale per via grafica.
Ora però i pesi interni della coalizione si sono ribaltati. Giorgia Meloni sa di guidare la lista della coppa e rivendica il vecchio criterio secondo cui il papabile premier sarà chi prenderà più voti. Fingendo di non sapere che, anche in caso di vittoria, la scelta spetta comunque al presidente della Repubblica. Per questo i fratelli-coltelli fanno circolare altri papabili, come antipasto di un conflitto interno che fa danni già in campagna elettorale.
La Lega ha soffiato ai cronisti il nome di Giulio Tremonti, anti Draghi per antonomasia: è il ministro del Tesoro che nel 2011 lo stesso Berlusconi, prossimo alle dimissioni, mise vistosamente da parte nella trattativa con la Bce (affidando il dossier all’“affidabile” Renato Brunetta, allora titolare della Pubblica amministrazione). Forza Italia anche non si rassegna alla premiership di Meloni: prima ha tentato di rimandare la scelta a un’assemblea dopo il voto.
Tentativo respinto da un muro FdI. Poi ha fatto discendere dal Ppe l’indicazione del coordinatore azzurro Antonio Tajani, già presidente dell’Europarlamento. Il fratello d’Italia Fabio Rampelli ha chiuso la storia con una battuta: «Mi sembra strano, era addirittura monarchico».
Non resta che la regola del «più votato». Salvini finge di acconciarsi: con il retropensiero di sommare, poi, il risultato della Lega con quello di Forza Italia.
Visto da sinistra
Dall’altra parte le cose non vanno meglio. Il segretario del Pd Enrico Letta in queste ore cerca di mettere insieme un’alleanza «solo elettorale» per poter coalizzare al suo Pd le mele con le pere, ovvero il draghista Carlo Calenda e i rossoverdi antidraghiani Fratoianni e Bonelli. Calenda, incurante del fatto che da statuto il segretario del Pd è anche il candidato premier del Pd, mette da giorni un dito nell’occhio a Letta e parla di «premier Draghi».
Letta è «persona seria», ammette il leader di Azione con finta cortesia, ma «per Azione e +Europa il candidato premier non può essere Letta. Forzare su questo punto chiuderebbe immediatamente la discussione».
In realtà ieri ha corretto il tiro: «Noi pensiamo a un governo Draghi bis con una forte componente riformista», ma «se domani Draghi dicesse che non è disponibile allora mi candiderei io». Un’aggiustamento a cui potrebbe non essere estranea l’eco di un certo fastidio che proviene proprio da palazzo Chigi, dove il presidente in carica per gli affari correnti, già presidente di un governo di unità nazionale, è infastidito dal sentirsi strattonato a fini di campagna elettorale e di vedere il suo nome agitato come una clava.
Per Letta la discussione sulla premiership è «surreale». Tanto più in un frangente in cui è più utile cercare i voti per entrare in partita. «Assumo fino in fondo il ruolo di front runner della lista per una Italia democratica e progressista», ha comunque sottolineato.
Il problema è anche avere il senso della misura. La legge elettorale prevede che «contestualmente al deposito del contrassegno» ovvero il simbolo, «i partiti o i gruppi politici organizzati depositano il programma elettorale» e «il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica». Capo della forza politica, tutto qua. Perché restano «ferme», e non potrebbe essere altrimenti, le prerogative spettanti al Colle. Art.92: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri».
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