Il governo Meloni fa registrare un record. Ma non è proprio un merito: si tratta del primato sul numero delle questioni di fiducia poste in parlamento dal giorno del giuramento. Dallo scorso 22 ottobre a oggi, cioè in nove mesi di attività, è stata chiesta 23 volte: 17 alla Camera e 6 al Senato. La media complessiva è di quasi 2,6 fiducie poste a Montecitorio e palazzo Madama.

La priorità è blindare i testi e silenziare i parlamentari. L’ultima risale a oggi, lunedì, alla Camera, dove il ministro per i Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, ha annunciato che il governo ha chiesto la fiducia sul decreto Alluvione. Ormai un copione consolidato. Il trend lascia pensare che non finisca qui: prima della pausa estiva bisogna convertire altri decreti. Già la prossima settimana è prevedibile una nuova fiducia durante il passaggio al Senato del decreto Alluvione che, in caso contrario, decade il 31 luglio. Di certo ne è stata prevista un’altra, entro fine mese alla Camera, sul decreto Pa bis.

Come Meloni nessuno mai

Resta il fatto che nessun esecutivo politico ha mai avuto questi ritmi. La strategia è chiara: i parlamentari non possono illustrare nemmeno gli emendamenti preparati, devono limitarsi alle dichiarazioni di voto. E non si tratta solo di una questione tecnica, il risvolto è principalmente politico. L’alleanza di governo deve cercare di tagliare i tempi del confronto tra partiti, limitare il margine di manovra di deputati e senatori per scongiurare il rischio di trappole.

Il continuo ricorso alla fiducia, che dovrebbe mostrare la solidità della maggioranza, in realtà mostra la diffidenza con cui, da palazzo Chigi, guardano ai gruppi parlamentari. Nelle ultime ore Meloni ha anche superato il governo Gentiloni che, in tempi più recenti, era tra i più “fiduciosi” con una media di 2,3 al mese.

Il raffronto con i precedenti esecutivi è in effetti una mappa molto utile per comprendere la situazione. Gli esecutivi di «unità nazionale» di Mario Monti e Mario Draghi hanno messo la fiducia con una media superiore a 3 volte al mese. Ma la natura eterogenea delle loro maggioranze li esclude dalla graduatoria. Eppure, di questo passo, Meloni può avvicinarsi, facendosi beffe del fatto di avere in dote una maggioranza di matrice politica e ben solida – almeno – nei numeri.

«I dati dicono che c’è una fiducia quasi ogni 10 giorni», dice la vicepresidente del Pd, Chiara Gribaudo. «Ci saremmo aspettati un ritorno alla normalità – aggiunge la deputata – da chi si è presentato agli elettori con lo slogan “pronti” e da chi ora gode di un’ampia maggioranza parlamentare. Il concetto di democrazia di Meloni, evidentemente, è più vicino all’idea di comando che di governo».

Prezioso è il parallelo con il governo Conte II, che ha operato in una fase di eccezionalità come quella della pandemia mettendo insieme partiti distanti tra loro, dai renziani di Italia viva al Movimento 5 stelle. Nonostante questi fattori di instabilità, la media delle questioni di fiducia è stata di 2,3 al mese durante i 17 mesi di mandato. L’esecutivo di Matteo Renzi è stato ancora più cauto nel ricorso a questo strumento: ha blindato in media 2 provvedimenti al mese. Addirittura Conte I, quello sostenuto dall’alleanza Lega-Cinque stelle, ha posto la fiducia in appena 13 occasioni, poco più di una volta al mese.

Solo buone intenzioni

L’abuso di testi blindati nei due rami del parlamento mette sul tavolo un problema istituzionale tutt’altro che secondario. Tutti promettono di rispettare le prerogative del parlamento, titolare del potere legislativo. Il capo dello stato, Sergio Mattarella, ha denunciando più volte questa stortura e ha invitato i presidenti delle Camera a prestare maggiore attenzione sull’uso dei decreti, che inevitabilmente favoriscono il ricorso alla fiducia. Lo scorso 19 luglio la presidente del Consiglio aveva fornito l’ennesima garanzia durante il «cordiale», come è stato definito, incontro con il presidente della Camera, Lorenzo Fontana. Nel faccia a faccia si era parlato di «decretazione d’urgenza, omogeneità dei decreti-legge e organizzazione dei lavori parlamentari», spiegava la nota ufficiale. Buone intenzioni, nulla di più. I fatti dicono altro. Ma quantomeno Fontana ha provato a far qualcosa, mentre il presidente del Senato, Ignazio La Russa, lascia correre senza battere ciglio.

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