Palazzo Chigi stavolta non raffredda la rabbia, filtra l’insofferenza per la pedagogia costituzionale di Sergio Mattarella. Difende «i poliziotti che sbagliano» e scava fossati con il presidente accusato di colpirla mentre è a Kiev. Salvini la segue
Da una parte il presidente, la Costituzione, la Repubblica parlamentare, le libertà e le garanzie per tutti, un’intera civiltà espressa dalla sua frase scolpita: «Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento».
Dall’altra l’aspirante premierissima, con il suo manipolo di governo, ministri che fanno a gara per coprire le responsabilità di una parte delle forze dell’ordine, parte che si percepisce come esentata dai principi costituzionali, ben rappresentata non solo dai manganelli di Pisa ma anche dal carabiniere che a Milano, a un’anziana cittadina manifestante, ha risposto «Mattarella non è il mio presidente. Io non l’ho votato, non l’ho scelto io, non lo riconosco».
Da ieri è in corso uno scontro istituzionale di cui si faticano a trovare precedenti nella storia della Repubblica, neanche risalendo agli anni della coabitazione fra Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi, per restare al di qua del guado della Prima Repubblica. Mattarella telefona al Viminale per chiedere conto – a chi sennò – delle scene di violenza contro i minorenni a Pisa e Firenze.
Meloni tace ma si sente nel mirino – ma perché? Perché si identifica con quei poliziotti – e al suo partito fa esprimere concetti che nella sostanza sono un attacco al Quirinale: non ci sono «fallimenti», né poliziotti che sbagliano, la causa dei «disordini» è «la sinistra che spalleggia i violenti». Stavolta il suo vice Matteo Salvini non riesce a superarla: è gelido sul Colle, «le parole del presidente si leggono e non si commentano», ma «chi mette le mani addosso a un poliziotto o a un carabiniere è un delinquente». Epperò nelle immagini di Pisa e Firenze si vedono solo sono agenti che menano minori, non il contrario.
Da palazzo Chigi stavolta, a differenza di altre precedenti situazioni pure tese – come lo scontro con i magistrati del luglio 2023 - non c’è nessuna accortezza, di più, nessuna intenzione di attenuare il fossato.
Anzi filtrano riflessioni grossolane sulla tempistica dell’intervento del Colle: mentre la premier stava a Kiev ad assumere la guida del G7, mentre si aprono le urne in Sardegna, dove lei si gioca la prima partita seria della primavera elettorale. Se c’è un modo per tentare di screditare il capo dello stato, è il venticello della calunnia: far circolare l’idea che da arbitro diventi giocatore in campo.
Il riflesso pavloviano
Le cose non stanno così, a Meloni basterebbe mettere in fila le parole di Mattarella: venerdì ha condannato «insulti, volgarità di linguaggio, interventi privi di contenuto ma colmi di aggressività verbale, perfino effigi bruciate o vilipese, più volte della stessa presidente del Consiglio, alla quale va espressa piena solidarietà». Il giorno dopo, la nota sul «fallimento dei manganelli».
A palazzo Chigi sembrano due riflessioni di segno opposto. Ma qui esce il pregiudizio e il riflesso pavloviano: invece i due messaggi sono sulla stessa linea. Il presidente vede le contrapposizioni fra destra e sinistra salire di tono, capisce – come tutti, almeno tutti i rappresentanti delle istituzioni «consapevoli» – che il conflitto israelo-palestinese e le immagini della strage a Gaza accendono le piazze, anche le nostre. E al netto degli «istigatori» che la destra vede ovunque, richiama alla responsabilità chi detiene legalmente l’uso della forza, primo e determinante attore perché in piazza non si faccia male nessuno.
Ma è un discorso troppo complesso per palazzo Chigi. Che non raffredda la rabbia anzi minaccia di correre sul premierato. Proprio per ridimensionare il ruolo del Colle e cancellare quel che soffre di più: il richiamo alle garanzie della Carta, l’opera di pedagogia costituzionale, svolta con un’autorevolezza nel paese (contrapposto alla «nazione» nazionalista meloniana) che tutti gli indici periodicamente confermano.
Colomba o vaso di coccio
Fra Mattarella e Meloni c’è poi il ministro degli interni Matteo Piantedosi. Che con il Quirinale sabato ha «condiviso» il giudizio sui manganelli, anche se per timore di irritare il suo referente Salvini ha atteso un giorno prima di dichiararsi «contrariato e amareggiato».
Saranno i questori a fornirgli la «dettagliata relazione» sugli eventi, si capisce che c’è un grosso nella questura di Pisa. Ma i questori rispondono al Viminale. Ed è poi inutile che il ministro assicuri che «il governo non ha cambiato le regole della gestione dell’ordine pubblico».
Mancherebbe solo che il governo avesse diramato l’ordine di un giro di vite in piazza. Il punto è semmai un altro: dare un segno inequivocabile agli agenti – tuttora senza codice identificativo e body cam – che in questo paese non c’è piazza extra Costituzione.
Con tutt’altro passo, sebbene con le dovute cautele, lo fece Luciana Lamorgese, titolare del Viminale del governo Conte II e Draghi, nel febbraio del 2022, dopo altri episodi di manganelli in caduta libera sugli studenti a Torino e a Roma: fece inviare un’ordinanza a firma del capo di gabinetto, all’epoca Bruno Frattesi, ai prefetti e al Dipartimento della pubblica sicurezza. Vi si chiedeva di attivare «ogni possibile canale di preventivo dialogo con i promotori o gli organizzatori delle iniziative».
Messaggio sereno, ma chiaro, per rendere l’uso della forza, da parte degli agenti, extrema ratio. «Fallimento», dice oggi Mattarella. Che sia colomba o vaso di coccio fra Meloni e Salvini, è a Piantedosi che sta in capo l’ordine pubblico.
Il conflitto fra palazzo Chigi e Colle, nella domenica del voto sardo, è molto più pericoloso degli esiti della disfida politica nell’isola. Ma è certo che il risultato contribuirà a galvanizzare la voglia di rivincita di Meloni sulle istituzioni repubblicane. O a ridimensionarne le ambizioni in velleità.
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