La maggioranza crea l’ingorgo alla Camera e allontana al 2024 il dibattito sul fondo salva-Stati. E il governo Meloni «diventa governo melina», attaccano le opposizioni
Anno nuovo, solito dibattito sul Mes. Il 2024 si aprirà proprio come sta per chiudersi il 2023, con il tema del mancato via libera al fondo salva stati che aleggia su palazzo Chigi. Nemmeno in questa settimana la riforma del Mes sarà discussa, né tantomeno approvata, dalla Camera. «È un dibattito molto ideologico e italiano, testimonia la strumentalità di certe posizioni. Non si può parlare del Mes se non si conosce il contesto», ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, capovolgendo la vicenda per nascondere il settarismo della destra italiana sul tema.
La premier ha quindi mostrato un certo ottimismo sul nuovo Patto di stabilità: «Ci sono spiragli nella trattativa aperta», ha garantito. Solo che la strategia dilatoria non è passata inosservata. La segretaria del Pd, Elly Schlein, è partita all’attacco: «Ratificare le modifiche al Mes non significa chiederne l’attivazione. Ci sono 26 paesi su 27 che l’hanno approvato. Se non è in grado nemmeno di spiegare questa differenza, non è adatta al suo mestiere». Il duello si rinnoverà oggi in aula, a Montecitorio, dove la premier è attesa per le comunicazioni prima del Consiglio europeo di giovedì e venerdì.
Camera con rinvio
La destra ha comunque pronta la scusa per rimandare la partita. Il calendario dei lavori di Montecitorio è intasato, bisogna far slittare tutto a gennaio, come ha confermato nella sostanza il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, a nome di Fratelli d’Italia: «Ci sono decreti in scadenza, c’è la manovra». La pantomima continua. E l’ex premier Matteo Renzi ha colto l’occasione per tirare fuori un calembour: «Il governo Meloni è diventato il governo melina». Sicuramente a Bruxelles non hanno accolto con soddisfazione la notizia. I vertici dell’Unione attendevano una risposta entro dicembre per non bloccare il trattato: sono appesi alle contorsioni italiane.
In Europa faticano a comprendere l’ostilità dell’Italia di fronte alla riforma del Mes. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, aveva garantito che il parlamento ne avrebbe discusso in settimana. Non era la promessa di un’approvazione, certo. Ma quantomeno c’era l’impegno di un confronto. Di questi tempi è già qualcosa. Alla fine, è stato solo un modo con cui Giorgetti ha evitato di dare una risposta precisa ai colleghi dell’Ue. Un déjà vu.
D’altra parte, l’ordine dei lavori della settimana alla Camera, conteneva in sé il rinvio: il Mes era stato collocato sapientemente a piè di pagina, al termine dell’iter di conversione del decreto Anticipi e dopo il confronto sulla legge di delegazione europea. Per questo motivo, conoscendo i ritmi dell’aula Montecitorio, nessuno avrebbe scommesso davvero in un dibattito entro il giovedì. Un modus operandi collaudato: era stato già seguito nelle scorse settimane. Sorprende la sorpresa di fronte allo slittamento.
Addirittura il più europeista della compagnia di governo, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha lasciato intendere l’antifona: il Mes deve essere inserito in un «pacchetto» di temi, una revisione complessiva di questioni riguardanti le banche. Per il segretario di Forza Italia il fondo salva stati infatti «è parte dell’unione bancaria ma non è tutta l’unione bancaria». Il suo partito è favorevole «ma non dobbiamo essere condizionati dalla fretta degli altri perché noi, per esempio, abbiamo fretta su altri temi». Un equilibrismo per non irritare Meloni e non sconfessare la posizione del Ppe.
La logica sottintesa è quella di tirare ancora di più la corda con Bruxelles. Finora è andata bene. Il via libera dell’Ecofin alla revisione del Pnrr è stato vissuto come un trionfo dalle parti di palazzo Chigi. La testimonianza diretta è stata la solita batteria di dichiarazioni entusiaste sebbene fosse un passaggio scontato. Ora nel governo c’è chi spinge per alzare ancora l’asticella all’insegna del ricatto che soppianta la logica del do ut des: prima bisogna sciogliere il nodo del nuovo Patto di stabilità, assecondando le richieste italiane che puntano a non conteggiare ai fini di debito e deficit alcuni investimenti, in primis sulla transizione energetica; poi dopo si potrà ragionare sull’amaro boccone del Mes, per Meloni e soci, da mandare giù.
Il problema è che il governo ha dato poco o nulla all’Ue. Non ha fornito nemmeno una generica garanzia dell’approvazione alla riforma del Mes. La premier continua a buttarla sul «contesto». Difficile dare credito a un approccio simil ricattatorio che potrebbe creare un precedente in Europa.
Tirare la corda
La convinzione dell’esecutivo guidato da Meloni è che Bruxelles cederà alle pretese di Roma. L’Italia è too big to fail, troppo grande per fallire, nessuno è intenzionato ad assumersi questa responsabilità. Tanto che la manovra economica è stata fatta per gran parte in deficit, facendo alzare il sopracciglio in più di qualche cancelleria europea, specie tra i leader dei paesi frugali.
Difficilmente un ipotetico governo Wilders, nei Paesi Bassi, sarebbe disposto a fare ulteriori concessioni all’Italia. D’altra parte c’è chi in Transatlantico sostiene: «Prima o poi Meloni dovrà cedere». Una tesi che è propugnata anche da un pezzo della maggioranza, soprattutto tra i centristi di Forza Italia. Qualcuno, come il presidente della regione Liguria, Giovanni Toti, lo dice in pubblico: «Sono favorevole alla ratifica del Mes». Una posizione opposta a quella del senatore leghista, Claudio Borghi, irriducibile anti Mes, che interpellato da Domani rimanda a un suo decalogo, pubblicato sui canali social, in cui spiega le ragioni per dire “no” alla ratifica del fondo.
«È uno strumento di dominio e di sottomissione, non porta nessun vantaggio per l’Italia». Un bignami della spaccatura.
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