- A sinistra volano stracci anche sulla riforma, ormai senza padri. Iv nega responsabilità. M5s contro Letta, anche Calenda attribuisce al Pd le scelte di Matteo Renzi.
- Gli atti parlamentari diventano un’opinione, e un’occasione di fare volare gli stracci. Nel litigio si perdono le impronte e sul Rosatellum, che ha il nome, questo almeno è incontestabile, di Ettore Rosato, deputato e coordinatore di Italia viva.
- Durante il governo Draghi furono gli sherpa del Pd a provare a convincere Lega e Forza Italia alla riforma. In un primo momento gli emissari di Salvini – e cioè il senatore Calderoli – lasciarono intendere una disponibilità. Che poi fu ritirata.
Gli dei accecano quelli che vogliono perdere e nell’area opposta allo schieramento delle destre, dato per favoritissimo dai sondaggi – che per legge dal 10 settembre non potranno essere più pubblicati – siamo ormai al tutti contro tutti. Pd, M5s e terzo polo stavolta litigano sulla legge elettorale. Gli atti parlamentari, che certificano chi ha fatto cosa in parlamento, dunque di chi sono le impronte sul Rosatellum – dal nome, questo almeno è incontestabile, di Ettore Rosato, deputato e coordinatore di Italia viva - diventano un’opinione. E l’occasione per far volare gli stracci.
La polemica nasce dall’«allarme per la democrazia» lanciato da Enrico Letta martedì all’avvio della campagna elettorale Pd. Il segretario ci torna da radio Rtl 102.5: «La democrazia non è a rischio se vince la destra, ovviamente. Il nostro sistema regge, reggerà, vinca la destra o vinca la sinistra», spiega meglio, l’allarme è perché «il sistema elettorale che ha voluto Renzi alcuni anni fa, il Rosatellum, può consentire alla destra un risultato sotto il 50 per cento dei consensi» ma una vittoria «con il 70 per cento della rappresentanza parlamentare».
Per Letta il Rosatellum è una «pessima legge», e su questo è d’accordo con Giorgia Meloni: «Renzi lo impose pensando a se stesso. Pensava di avere il 40 per cento e di prendersi il 70 del parlamento». Letta spinge sul tasto del maggioritario, «vuol dire che nei collegi uninominali chi vota per il terzo Polo o M5S sostanzialmente favorisce la vittoria della destra».
A questo punto prende la parola Giuseppe Brescia, il grillino presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera. «Teatrino ridicolo», quello di Letta, dice, «All’inizio del 2020, d’intesa coi partiti dell’allora maggioranza e dopo un confronto con le opposizioni, ho presentato una riforma semplice, di stampo proporzionale», «un testo aperto alla discussione su cui il Pd ha voluto accelerare durante la campagna referendaria per la riduzione del numero dei parlamentari.
Dopo la vittoria del sì, invece, fu il nulla cosmico». Brescia omette di dire che a fermare quel testo fu Iv, che cambiò il voto dal sì, in commissione, alla minaccia del no in aula.
Si scatena la contraerea del Pd, nella solitamente mite persona di Andrea De Giorgis, responsabile riforme. Ricostruzione «incredibile», Brescia dimentica «con quanta determinazione abbiamo cercato di far maturare le condizioni per una riforma condivisa», il M5s «dimostra un’incomprensibile coazione a ripetere scorrettezza e falsità».
Entra in ballo Iv, il cui fondatore aveva ideato quell’Italicum poi abbattuto dalla Consulta. Parla Maria Elena Boschi, a sua volta indimenticabile madre della riforma costituzionale bocciata dal referendum del 2016 (il padre era l’allora premier Renzi): Letta «mente», attacca, «la legge su cui il governo Renzi ha messo la fiducia era l’Italicum. Il Rosatellum fu frutto di un accordo di Pd, Forza Italia e Lega e la fiducia fu messa dal governo Gentiloni».
A confondere ancora di più le acque ci si mette Carlo Calenda: tutta colpa del Pd che non ha fatto rispettare le condizioni per il sì al taglio dei parlamentari, alla nascita del governo giallorosso: «Il taglio dei parlamentari lo avete votato per sudditanza morale e culturale ai Cinque stelle, e poi non avete fatto nulla. Non prendere in giro gli elettori.
Dopo due anni di giuramenti di fedeltà ai Cinque stelle non ho ancora sentito una parola di scuse per i danni fatti».
Peccato che il primo sì, pubblico, e clamoroso, a fine agosto 2019, nel pieno delle trattative per la nascita del governo giallorosso, fu del suo sodale Renzi.
Le mezze verità di tutti
Basterebbe appunto sfogliarsi gli atti parlamentari, e qualche giornale, per ricostruire com’è davvero andata. Il proporzionale su cui c’era un accordo giallorosso fu stoppato da Iv alla camera. Né di proporzionale parlavano i patti stretti da Pd e M5s e Leu come merce di scambio per l’indigesto sì al taglio dei parlamentari, che Di Maio e Conte misero sul tavolo come condizione irrinunciabile per la nascita del governo. Nel marzo del ‘21 Enrico Letta arrivò alla segreteria Pd e iniziò una lenta conversione al proporzionale: sarebbe stato un cambio radicale per il Pd maggioritarista (e con molti maggioritaristi sommergibili all’interno).
Durante il governo Draghi furono proprio gli sherpa del Pd a provare a convincere Lega e Forza Italia alla riforma. In un primo momento gli emissari di Salvini – e cioè il senatore Roberto Calderoli – lasciarono intendere una disponibilità. Che poi fu ritirata quando si accorsero che la competizione con Fdi, con il proporzionale, sarebbe stata mortale.
Nel novembre del ‘21 i retroscena però riferivano di un asse Letta-Meloni contro il proporzionale. Sul primo non erano precisi. Sulla seconda sì: Lega e Fi erano al governo, e la presidente Fdi fiutava che, senza una coalizione, davanti a lei la porta di palazzo Chigi non si sarebbe mai aperta.
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