Nella sua lettera ai colleghi, Morgan invoca il principio costituzionale della presunzione d’innocenza. In una precedente intervista al Corriere, invece, aveva richiamato il contesto che avrebbe dovuto spiegare ciò che appariva stalking. Sostanzialmente, una specie di sindrome ossessivo-compulsiva da abbandono: la reazione dirompente alla fine della storia d’amore con la persona forse minacciata e perseguitata. Morgan descrive anni di relazioni mutevoli: prima amici, poi amanti, poi persone legate da «affinità elettive». E, di nuovo, come già sentito in altre vicende, si parla di centinaia di messaggi: «500 messaggi al giorno». Il discorso amoroso dei nostri tempi è letteralmente esploso in una ipertrofia di minutissimi frammenti di testo. Ciò che una volta fu contatto dei corpi e spazi di vita condivisa ora è flusso disincarnato di parole, in ogni momento e luogo. Non so se sia un male, non so se fossero meglio le lettere d’amore lente e lunghe di una volta. Ma è un nuovo contesto dove ogni leggerissima fluttuazione nei messaggi – ogni messaggio non mandato, ogni silenzio di poche ore – diventa segno dell’abbandono. Così come tante parole sono segno di passione, il silenzio ora è simbolo di solitudine. Che due persone si amino pur stando per un po’ di tempo senza comunicare, o senza dirselo, è ormai impossibile. È la normalizzazione dell’ansia di controllo.

Quando tutto questo finisce, il maschio che viene lasciato può, si lascia intendere, abbandonarsi a eccessi: una presunta ovvietà solo suggerita, come una specie di scusante, nell’intervista al Corriere, come parte di una strategia mediatica di difesa, che risponde alla strategia della presunta vittima, di altri che la assistono e di alcuni giornalisti come Selvaggia Lucarelli – la strategia che ha portato alla rescissione dei contratti di Morgan con la Warner e con altri committenti.

Due livelli

Ci sono due livelli, qui: il processo e ciò che, al di fuori del processo, si può pensare e dire nella sfera pubblica in relazione a reati particolarmente odiosi come lo stalking. E, nel caso di Morgan, le questioni sono due. Primo, è lecito rispondere alla presunzione che l’artista sia autore di stalking con una specie di embargo economico-sociale? Secondo, sono reazioni così eccessive, che esse siano stalking o si fermino un gradino prima, comprensibili, se non giustificabili?

Sulla prima questione, l’appello di Morgan non può che cadere nel vuoto. La presunzione di innocenza non è obbligo di collaborazione. È nel diritto di un’azienda privata come la Warner rescindere, o non accendere, un contratto, se farlo non violi norme di legge. Morgan, che nell’intervista parla di nozze comuniste celebrate da Sergio Staino fra lui e la presunta vittima, dovrebbe riflettere di più sul capitalismo: se si accetta un sistema dove non c’è un diritto al lavoro o alla sussistenza, se si accetta il mercato e col mercato si sopravvive (cos’è vendere canzoni, concerti, sensazioni forti, vendere un personaggio se non mercato?), non si può invocare una specie di reddito minimo garantito per artisti quando il mercato ci volta le spalle. E il mercato siamo tutti noi, con le nostre preferenze: per esempio, la preferenza di non collaborare con un presunto stalker. Non lavorare con qualcuno non è una punizione, per quanto scomodo sia per quel qualcuno. Morgan non deve pensare che la società o i colleghi e le colleghe lo stiano punendo. Stanno solo esprimendo un’opinione con le azioni. L’opinione («Morgan è effettivamente uno stalker e lo stalking è un reato odioso») può essere falsa o sbagliata. Ma ha libera cittadinanza, direi.

Ma l’aspetto più interessante è il secondo. Morgan cerca di giustificare i suoi comportamenti come reazione, pur eccessiva, all’abbandono da parte della persona con cui aveva avuto una relazione. I contorni della relazione e le modalità di abbandono non sono chiari. Ma ne emerge un quadro generale. Un maschio di successo, per quanto artista tormentato, una persona il cui ego, per quanto complesso, non è certamente privo di robustezza, viene (o sostiene di venire) devastato dalla fine di una relazione.

Ora, senza nulla togliere al dolore della fine di una relazione, senza negare che le relazioni affettive siano parte di ciò che rende la nostra vita degna di essere vissuta, siamo sicuri che il presupposto di tutto ciò sia accettabile? È normale che un maschio sia letteralmente distrutto, ridotto a un grumo di reazioni viscerali dalla fine di una relazione? Si può dire: si tratta di un artista, di un profilo psicologico peculiare. Ma in un’estate con svariati femminicidi, in un paese in cui dal 2023 sono state uccise 145 donne in ambito familiare e affettivo, quando, insomma, le donne continuano a essere uccise da uomini abbandonati, temo che Morgan sia parte della nostra normalità di maschi. Ci sappiamo fare peggio di lui con le parole. Ci fermiamo prima di lui. Ma, in fondo, proviamo gli stessi sentimenti.

Disturbo dell’attaccamento

Ma se il problema non fosse l’abbandono, ma la reazione maschile all’abbandono? Un misto di auto-denigrazione (non sono nulla senza di lei), rabbia (deve soffrire, perché mi ha abbandonato), onore offeso (come ha potuto?), smarrimento (il mondo perde di senso senza di lei, senza la nostra coppia). Tutto questo è troppo simile (detto senza particolari competenze, beninteso) a un disturbo dell’attaccamento.

Questi uomini soffrono ancora dell’abbandono della madre? Ma non sono casi isolati. Sono stereotipi culturali viventi. Morgan vede la sua relazione con certe lenti, che sono anche nostre. Ma queste lenti sono distorte e dovremmo disfarcene. Le relazioni affettive possono finire e ricominciare, o mutare di forma. La solitudine non è necessariamente abbandono. Un maschio abbandonato non ha meno valore né deve lavare nessuna onta. E, più precisamente, l’abbandono non giustifica nessuna forma di persecuzione, insulto, limitazione della libertà. Di nessuno. Tanto meno delle donne, in un momento storico in cui sono ancora una maggioranza ingiustamente discriminata, le protagoniste di uno scandalo di ingiustizia secolare durato troppo.

Morgan può essere innocente. Lo stabiliranno i giudici. Il maschile marcio che parla per suo tramite è ovviamente colpevole. E dovremmo dirlo sempre, in ogni occasione.

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