«Ma questo Spaventa quante Coppe dei Campioni ha vinto?». Dovendo scegliere una frase che più di ogni altra sia emblematica della commistione fra calcio e politica voluta da Silvio Berlusconi, questa le batte tutte. Era la vigilia delle elezioni politiche del 1994, quelle della “discesa in campo” ma anche il primo test del sistema maggioritario uninominale promosso dall’ondata referendaria dell’anno precedente. E il Cavaliere si trovava a competere in un collegio romano dall’esito tutt’altro che scontato.

Il suo principale competitor era il candidato dei progressisti Luigi Spaventa, illustre economista nonché portatore di un profilo moderato particolarmente insidioso per l’aspirante nuovo leader della politica italiana, che stava impostando tutta la campagna elettorale sul rischio dell’avvento “dei comunisti”.

Sicché, messo nelle condizioni di giocarsi l’asso, Berlusconi tirò fuori la retorica del leader che trionfa a livello internazionale sul campo dello sport. Un piano della competizione che lo avrebbe portato a stravincere e non soltanto perché, messa così, era proprio impossibile agli avversari trovare le regole d’ingaggio. Si apriva una stagione della “calcistizzazione della politica” cui il leader di Forza Italia dava di fatto l’imprinting, con trasformazione delle fazioni politiche in tifoserie. Soprattutto, ciò non avveniva mica per caso.

Calcio e politica

LaPresse

Un profondo mutamento culturale aveva già incubato nella società italiana. E di quel mutamento il sistema della comunicazione di massa Fininvest era stato un pezzo d’innovazione che, lasciando da parte il (severo) giudizio sugli aspetti qualitativi e valoriali, aveva fatto da forza trainante.

Tale cambiamento andava percepito proprio attraverso il calcio, che in questo paese a monocultura sportiva è sempre stato l’autobiografia della nazione. Per tradizione, il calcio era stato fin lì la politica proseguita con altri mezzi. Con l’avvento di Silvio Berlusconi il calcio si converte nella politica anticipata con altri mezzi.

Un banco di sperimentazione del mutamento culturale e politico che fa del Milan, la squadra dell’imprenditore novatore guidata dall’ayatollah di Fusignano, Arrigo Sacchi, l’avanguardia di uno stravolgimento più vasto. Si cambia il calcio italiano – e il calcio all’italiana – predicando modernizzazione nella mentalità e nei sistemi di gioco, ma così facendo si compie un test (riuscito) sulla possibilità di narrare un cambiamento del paese e di applicarlo con ricette che hanno già funzionato nei campi delle attività imprenditoriali, dell’industria culturale e infine dello sport.

Da lì in poi, fra slogan da stadio e metafore ardite, cambiano l’immaginario e il linguaggio della politica. Con quale rapidità e potenza tutto ciò avvenga lo si coglie dopo la difficile fiducia ottenuta a fine maggio 1994 in Senato per il suo primo governo (anche grazie alla benevola astensione di un altro imprenditore che in quella fase storica si occupa di calcio e industria culturale, Vittorio Cecchi Gori), nelle stesse ore in cui il Milan spazzava via il Barcellona nella finale di Coppa dei Campioni con un 4-0 che rimane nella leggenda. L’indomani, nei sommari di prima pagina, il Corriere dello Sport-Stadio titola che “sul 2-0 è arrivata la fiducia”.

Il derby con l’avvocato

lapresse

C’è sempre stata una visione monopolista nel suo modo di fare calcio. Un’esibizione di potenza economico-finanziaria che sconvolge un mondo nel quale dominano ancora i capitalismi familiari o i mecenatismi pelosi perché legati alle economie pubbliche locali. Si spende sì, ma dandosi un limite perché il giocattolo è costoso e la sua gente ingrata alquanto.

In questo mondo asfittico Silvio Berlusconi irrompe con una potenza di spesa sconvolgente, che deforma da subito il mercato (soprattutto quello dei trasferimenti di calciatori) e ne cambia l’assetto. Il primo a rimanerne sorpreso è l’avvocato Gianni Agnelli, che da proprietario della Juventus avverte immediatamente l’avvento di uno stile di gestione del calcio distante dai suoi modi, impossibile da reggere in termini di concorrenza.

Quando giunge il primo Juventus-Milan dal momento del passaggio di proprietà della società rossonera sotto le insegne di Fininvest, Agnelli gli tira una frecciata davanti alle telecamere Rai. «Ecco Berlusconi, il grande calmieratore del mercato» afferma dopo un triste 0-0 fra una Juventus declinante e un Milan ancora in costruzione (ottobre 1986).

Ammazzare la concorrenza

lapresse

Berlusconi ha già cominciato a schiacciare la concorrenza acquisendo calciatori a prezzi non sostenibili per le avversarie. Rimane tuttora un mistero il prezzo del trasferimento di Gigi Lentini dal Torino. L’allora Cavaliere continuerà ad agire così negli anni a venire, portando in rossonero atleti di primo livello in quantità esagerata, a rischio di vederli andare in tribuna perché si gioca pur sempre in undici e perché prima della Sentenza Bosman l’impiego in campo degli stranieri è limitato.

Alla lunga questo gioco all’esagerato rialzo gli si ritorce addosso. L’impegno in politica gli richiede di lasciare da parte la creatura, affidandola al fido Adriano Galliani, e di usare misura nelle spese. Inoltre l’avvento degli oligarchi nel calcio europeo alza nettamente l’asticella della spesa, coi figli di primo matrimonio (soprattutto Marina) che sempre più mugugnano sull’emorragia di capitali verso il calcio.

LaPresse

Ci si mettono pure le uscite di timbro autoritario, come il licenziamento in diretta tv del “comunista” Alberto Zaccheroni dopo un’eliminazione dalla Champions League. Ma gli ultimi anni a capo del Milan sono davvero magri, con la tifoseria che non gli perdona nulla.  E il tentativo di assicurare la continuità familiare tramite la figlia Barbara si rivela un disastro.

Il Milan viene ceduto nel 2017 a una cordata cinese sulla quale non si è mai smesso di favoleggiare. Ma la nostalgia per il calcio si fa sentire presto. L’acquisizione del Monza, portato dalla C alla A e gestito a mezzadria col fido Galliani (nel frattempo promosso anche a senatore della repubblica), è l’ultima avventura che ripropone il vecchio schema economico, ormai reso vintage dal mutamento: spese esagerate, sia pure su una dimensione inferiore, con azionista di riferimento che ripiana le perdite a fine anno.

LAPRESSE

E con qualche scivolone comunicativo, come l’irriferibile premio partita promesso ai calciatori della squadra brianzola nel caso avessero battuto la Juventus. Ma ormai non era più lui. O forse lo era troppo, senza più freni inibitori.

© Riproduzione riservata